Domenico Calcaterra
Su “Giorni di collera e annientamento”

Grottesco quotidiano

Il nuovo romanzo di Francesco Permunian è, come tutti i suoi, un tuffo nella follia quotidiana letta in chiave grottesca. Un’affollata galleria di stralunate figure d’una provincia assurta a riserva di caccia di uno scrittore

Scrittori come Francesco Permunian pongono il lettore di fronte a un’evidenza: la fissità, quasi ossessiva, delle sue scritture. Dinnanzi a una qualità di dettato e a un’indiscussa maestria che lo ha reso il maggior esponente del grottesco italiano, l’impressione che se ne ricava è di un monomaniacale scavo, sempre e comunque nella medesima direzione. Non è un’obiezione critica: è un fatto che s’impone. Analoga sensazione si riceve leggendo Giorni di collera e annientamento (Ponte alle Grazie, 2021), romanzo in tre movimenti che riguarda il protagonista Don Fifì e la sua parabola da aspirante crooner alla Bing Crosby ad autore di successo, vincitore del Premio Strega, e che vede la sua vita fagocitata dal buco nero dell’editoria italiana. I «giorni di collera» sono appunto quelli del racconto del suo tentativo di sfondare prima nel mondo della canzone, poi in quello della letteratura; quelli di «annientamento» sono legati alla «peste del covid-19», nel ritiro natio sul lago di Garda, dove cerca (con difficoltà) salute, riparo e requie. In mezzo, con l’ironico ricorso al più classico e ammiccante degli espedienti letterari, un manoscritto ritrovato, le pagine di diario di Don Fifì in cui emerge la couche familiare e l’humus sentimentale da cui scaturisce l’ambizione artistica del protagonista: «la sciocca e puerile illusione» di potersi, una volta per tutte, affrancare «dall’ingombrante ombra paterna mediante il canto e la scrittura».

Il titolo del libro, come informa lo stesso Permunian nella “Nota dell’autore” in coda al romanzo, trae spunto da un’intervista di Sandra Petrignani ad Anna Maria Ortese («Ho conosciuto giorni di collera, e insieme di annientamento. Una brutta vita, direi»). In epigrafe, a ribadire la fissità di una tematica che aggalla quasi ad ogni sua opera, le secche parole estratte da I libri degli altri di Italo Calvino: «a lavorare da un editore viene un cuore di pietra».

Sul fondale del consueto piccolo (e fuori di sesto) mondo di provincia, ai tempi della pandemia, accanto a Don Fifì Lunfardo, non poteva mancare (vero marchio di fabbrica delle partiture permuniane) l’ennesimo repertorio di varia e assurda umanità: prostitute neofasciste che scorrazzano su sidecar della Wehrmacht; un anziano dentista, inseparabile dal suo principale arnese da lavoro, un trapano a pedale; un re della rubinetteria di lusso ridotto a barbone da stazione; pellegrini invasati, improbabili suicidi… Non di rado, l’affollata galleria di stralunate figure (a un passo da una conclamata follia) d’una provincia assurta a riserva di caccia privilegiata dello scrittore e vissuta come malattia, connettendosi con il pozzo dei ricordi di ciascuno, giova a recuperare lacerti di ricordi personali che d’un tratto trovano chiarificazione, entro un percorso di rifondazione memoriale.

Per dire come l’autobiografia stia non solo alla base dell’ispirazione dello scrittore di Cavarzere, ma costituisca il tramite d’innesco maggiore che il lettore abbia a sua disposizione per ricevere lumi sulla storia privata e collettiva di noi italiani di provincia. I consueti elementi, oramai ridotti a feticci di un raffinatissimo meccano letterario, agiscono da emblemi d’una attualità irredimibilmente segnata dall’insania. Ciò lo rende, nell’agone delle patrie lettere, l’irriducibile indagatore delle psicopatologie dell’homo italicus: le sue narrazioni (che sembrano giungere da un mondo appena contiguo, in cui follia e devianza costituiscono l’ordinarietà), per quanto ci appaiano esasperate, non si discostano mai più di tanto dalla realtà, sicché la deformazione grottesca finisce per essere più realistica del vero.

Il problema semmai, con Permunian, è il rischio di ricevere talvolta l’inequivocabile sensazione di leggere sempre lo stesso romanzo, lo stesso canovaccio; insomma, lo stesso schema entro cui comodamente si dispiega la voce dello scrittore. Dal suo Olimpo grottesco si ostina a sbalzare ritratti assurdi, stentoree stenografie, purché s’incastrino al compulsivo marionettismo cui incatena la sua penna. Sovente non c’è trama, o meglio: essa è sfibrata, d’una stridente fantasiosità; smaccatamente assurta a pretesto di una affabulazione comunque sorgiva. Non c’è trama, ma ciò non importa, non costituisce preoccupazione, né per il lettore né per lo scrittore. Non c’è trama, ma solo teatro: il teatrino del puparo Permunian ventriloquo dei suoi personaggi, agiti sulla pagina come sintomi; spie; bidimensionali scarabocchi, nel loro indubbio rimandare alle perverse nevrosi, individuali e collettive, della contemporaneità. A tal riguardo, non so se mai alcun commentatore abbia chiamato in causa Giuseppe Berto (si legga qui, il ribaltamento, in chiave grottesca, tra un figlio che insegue l’arte e un padre «sprofondato in un gorgo d’angosce e fobie», situazione, in qualche modo negata di segno, rispetto a quella narrata da Berto nel suo romanzo più noto, Il male oscuro). Autobiografia dell’implicito e fuoco della letteratura ad alimentare ogni sua pagina – Francesco Permunian rimane fedele alla sua natura di autore senza dubbio palinsestuoso.


La foto accanto al titolo è di Roberto Cavallini

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