Daniela Matronola
A proposito di "Tuamore"

Romanzo della madre

Crocifisso Dentello ha appena pubblicato un romanzo nel quale si rivolge in prima persona alla madre, e ne racconta la malattia straziante. Un libro nel quale si insegue il senso di un rapporto che dà vita anche nella morte

Fioccano in questo anno, purtroppo fustigato da una guerra che rischia di allargarsi al pianeta, molti centenari: sono nati nel 1922 Vittorio Gassman, Ugo Tognazzi, Margherita Hack, Raimondo Vianello, Jack Kerouac, Beppe Fenoglio, Kurt Vonnegut, Pier Paolo Pasolini e molti altri. E poi il 1922 fu anche l’Annus Mirabilis della letteratura modernista: uscirono The Waste Land di T.S,Eliot, Jacob’s Room di Virginia Woolf, Ulysses di James Joyce. Fu poi l’anno che tramontò su due eventi tragici: la marcia su Roma e la morte di Marcel Proust. Nonostante i numerosi anniversari, è densa la concentrazione su Pasolini, che fu poeta totale, in tutta la sua multiforme opera, e che, oltre ad aver scritto La ballata delle madri (Mi domando che madri avete avuto… eccetera, avrebbe chiosato PPP), ha confessato sé stesso a sua madre, Susanna Colussi, in Supplica a mia madre (È difficile dire con parole di figlio / ciò a cui nel cuore ben poco assomiglio. … Ti supplico, ah, ti supplico: non voler morire. / Sono qui, solo, con te, in un futuro aprile…) rivelando un rapporto esclusivo che gli ha negato di poter amare ogni altra donna: leggendo Tuamore di Crocifisso Dentello, appena uscito nella collana Oceani di La Nave di Teseo (128 pagine, 17 Euro), è la supplica di Pasolini a tornare subito e spesso in mente.

L’autore, Crocifisso Dentello, come il poeta, parla a sua madre, Carmela, da tutti chiamata Melina: la madre ama molto sentirsi chiamare così, rifiuta invece nettamente il nome intero, nel quale, con più o meno consapevole sensibilità estetica, sente il peso equivalente di una lunga e tribolata storia di ragazza emigrata dal Sud, che ha poco o niente studiato, che ha fatto mille umili lavori per dare respiro agli affanni economici familiari, che ha avuto il primo figlio a vent’anni, che ha lottato come una leonessa per la dignità propria e dei figli – somigliando dal vero, in questo, ad Antonia, la madre battagliera del romanzo di Giulia Caminito, L’acqua del lago non è mai dolce, una madre combattente di battaglie giuste, e con donchisciottesco ardimento, contro un destino segnato dalla classe umile e dalla condizione economica quasi inesistente, una madre a cui la figlia, Gaia, non intende somigliare pur replicandone inevitabilmente la stessa fierezza, la stessa guerra alla ipotetica impresentabilità, la stessa determinazione popolana, appena meno diretta, pronta a diventare reazione rabbiosa.

Crocifisso Dentello si rivolge con il TU a sua madre Melina tenendo in piedi un dialogo unilaterale oltre ogni possibile fine (parole, di nuovo, di Pier Paolo Pasolini) come del resto è annunciato fin dal titolo, quel Tuamore che è una tripla crasi: tu saldato alla parola amore e con inscritta dentro anche la parola tumore, di cui la madre si ammala per attraversare, eroica, un lungo, torturante calvario – raccontato non con il linguaggio e i modi imposti dalla malattia, ma con umana compenetrazione, senza che mai venga meno il carattere e il piglio di Melina, donna forte, di grande spirito, capace di sventare ogni patetismo, ogni facile compassione o compianto, capace poi di imprimere sempre un diversivo, cioè di far deragliare nel comico, nell’umoristico, ogni penoso risvolto della propria penosa malattia, capace di restare fine umorista fino alla propria fine.

In più, seguendo la ricapitolazione, accurata e limpida, della vita di Melina (non un cieco peana ma il racconto di una madre, di una famiglia, di un’Italia), percepiamo le stesse temperature emotive del figlio-autore, condividiamo il suo stesso struggimento, lo stesso dolore, la sua stessa pena senza sconti, riconosciamo in lui un nostro senso di perdita, di esclusione da ogni altra possibile felicità.

È molto toccante, e veridico, sentito e scritto autenticamente, ciò che accade quando sopravviene lo sfarsi del corpo, come la dignità della persona sia tutta ingoiata dallo scempio del corpo: è un grande valore del libro, e persino un suo segno di classicità, questo, cui consegue un senso di orfanaggio profondo – la perdita della madre, e, al pari, il senso che tutta la vita sia morta, senza più significato.

«Non sarò mai più felice, le mie ultime strozzate parole. […] Invidio certi sguardi che catturo con la coda dell’occhio, sguardi sazi (non prosciugati di senso come il suo) di chi è scampato al dramma, di chi piò tornare a casa e ritrovare intatto il suo presepe di affetti».

C’è un grande guadagno, poi, da questo libro: il riconoscimento del valore dell’essere madri, e dell’ aver scelto d’esserlo dedicando a questo compito l’intera esistenza, con tutto il carico di doveri e di dedizione totalizzante che ciò comporta – senza peraltro mai combaciare con una remissività scelta ma continuando a cullare una propria quieta ribellione alle prescrizioni esterne come un indomabile spirito ribelle segno di una freschezza e giovinezza incorreggibili che Melina la madre ha mantenuto sempre, dando prova di grande carattere. Insomma una madre luminosa, estremamente cara, unica vera donna della vita per l’autore, che non è l’unico figlio, ma è il figlio eletto, il primo, concepito prima del matrimonio, più orfano dei due fratelli, Concetto e Nunzio, e a momenti più vedovo di suo padre con cui è rimasto a condividere la vuota, frugale vita domestica.


Accanto al titolo, Pablo Picasso, “Madre e figlio saltimbanco”, 1905

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