Danilo Maestosi
A Roma, a Palazzo Bonaparte

Bill Viola allo specchio

Una grande mostra antologica torna a concentrare l'attenzione su Bill Viola: un maestro del contemporaneo che con la videoarte crea spazi emotivi che, spesso, dialogano anche con la tradizione e la classicità. Ecco qualche consiglio per entrare nel suo mondo

Per una volta, più che attraverso il copione consueto di una recensione la visita alla mostra romana di Bill Viola, con cui Palazzo Bonaparte riapre i battenti dopo un lungo letargo imposto dal Covid, prende la forma di un manualetto di istruzioni per l’uso. È nella confezione e negli intenti una rivisitazione antologica destinata anche a un pubblico di non iniziati, come tutte quelle fabbricate dalla società Arthemisia che, col sostegno finanziario del gruppo Generali proprietario della sede, vuol trasformare in centro culturale questo splendido edificio seicentesco all’imbocco di via del Corso, che fu dimora della madre di Napoleone. E che pochi, purtroppo, conoscono.

Come pochi probabilmente conoscono l’autore, Bill Viola, 71 anni, statunitense, un nonno emigrato dal Varesino. Nonostante sia ormai incoronato tra i grandi maestri del contemporaneo ed esposto in tutto il mondo. E nonostante la sua carriera sia decollata proprio qui vicino, a Firenze dove aveva impiantato un proprio laboratorio di produzione, e in altre città italiane, conquistato dalla scoperta e dallo studio dei capolavori dei nostri musei d’arte antica. L’ultima sua apparizione al Palaexpo di Roma risale al 2008: quattordici anni fa, l’intervallo di una generazione,

Viola è anche tra i pionieri di una nuova disciplina espressiva, la videoarte, figlia di una tecnologia di comunicazione di massa, quella televisiva, data per superata con l’avvento di Internet dalla smania dominante d’eterno presente. E maltrattata dalle sue rappresentazioni museali. Raro che le rassegne mordi e fuggi da pubblici in transito in cui sono inclusi lavori video riservino loro lo spazio e i tempi di raccoglimento che pure reclamano.

Questa di Palazzo Bonaparte percorre, per fortuna, un’altra strada. Uno spettacolo con altre regole. Che invocano qualche consiglio. Sulla scia e in aggiunta ai suggerimenti inseriti nel testo in catalogo del curatore, Valentino Catricalà, un esperto di opere in digitale ingaggiato anche dalla Quadriennale per i suoi nuovi programmi di divulgazione.

Prima istruzione. Provate a non considerare quella ventina di monitor che l’allestimento sgrana in più sale soltanto come schermi. Immaginateli piuttosto come specchi. Se staccate la spina potete cogliervi subito i vostri riflessi, fotografare la vostra distanza e la vostra identità di spettatori di passaggio. Ed ora guardateli accesi in funzione. Le immagini che cominciano a muoversi, attori che recitano come al cinema, come al cinema raccontano la storia, la situazione che sono stati addestrati ad interpretare. Eppure non vi sale su la sensazione di essere, vedervi anche voi insieme a quelle figure? Uno specchio che vi guarda e vi accoglie. Il dentro e il fuori, come poli intercambiabili tra cui scorre la vita di tutti: è la magia di Bill Viola.

Un’opera ad esempio per farla più facile. Observance, datata 2002. Davanti a noi una colonna di persone che avanza: uomini, donne, vecchi, ragazzi, in coppia o da soli, la pelle e il volto di tutti i colori. Sembra che ci guardino. In realtà la calamita che li attira è fuori campo, invisibile. Ci si avvicinano emozionati, commossi, a volte stupiti, qualcuno piange, qualcuno trova conforto in un sorriso. Si fermano pochi secondi, poi lasciano il posto a quelli dietro. Una fila di gente qualunque, alla quale potremmo partecipare anche noi. Lo stiamo già facendo. In quello schermo-specchio siamo riflessi anche noi. A me ha ricordato un funerale pubblico. Come ne ho visti tanti. La bara ancora aperta esposta alla folla in chiesa o in un’aula parlamentare. È recentemente successo con Gigi Proietti e Monica Vitti. Non è solo un omaggio. È un tributo alla memoria che ci ha lasciato. Piangiamo qualcosa che si è perso per sempre, ma ci portiamo appresso qualcosa che è diventata e resta nostra. Dalla morte alla vita. Un attraversamento, un viaggio che lo si voglia o no, ci accomuna. E ci accompagna. Perché per Viola, col tempo sempre più vicino alla filosofia Zen, sempre alla ricerca del punto di contatto tra le culture d’Oriente e Occidente, la vita non è un inizio, la morte non è una fine.

In un altro video, dello stesso anno sviluppato in orizzontale, Study for the path, (Studio per il percorso) il messaggio è ancora più esplicito. Un bosco di montagna, la luce di un solstizio illumina un corteo di gitanti che cammina tra gli alberi, gente qualunque e di tutte le età. Entrano e spariscono chi di corsa, chi a passo lento o bastone in mano. Vanno. Da dove, verso dove? Solo andare. Che importa, non è quello che facciamo tutti?

Secondo consiglio. Non andate di fretta. Prendetevi il tempo che ci vuole. Magari quello calcolato dall’autore che ha confezionato ogni opera con la clessidra della sua fantasia, manovrando come bacchette magiche le leve dello spazio e del tempo. Sequenze e ritmi dettati da un copione ferreo. La visione come un rito sacro ma laico d’iniziazione anche se il nastro si riavvolge in continuazione. Rischiate di perdervi parti importanti del racconto.

Un’altra istallazione può fare da esempio. Si intitola Ascension e dura dieci minuti. In cui succedono tante cose in quel cupo fondale compatto d’acqua mal raggiunto dalla luce che all’inizio ci accoglie. Poi la superficie si rompe, un’esplosione di bolle accompagna il tuffo dall’alto un uomo, che si getta scomposto a piedi in giù e braccia aperte, cala in giù in un vorticare di bolle che registrano il suo respiro, il suo reclamare la vita. Tocca il fondo e risale, ma torna a sprofondare senza più agitarsi stavolta, e inerte ed arreso scompare dall’inquadratura che si ricompatta nel buio.

Un altro viaggio anche qui, non più lungo una retta ma un cerchio. Bill Viola ci investe come in tutti i suoi lavori con una domanda. A noi la risposta o altre domande, per fare, se lo vogliamo, la nostra parte. Liberi, certo, di andarcene a spettacolo in corso se non ci ha preso abbastanza. Portandoci appresso un solo ricordo più vago: quello dell’acqua che ci ha bagnato la vista. Se non altro avremo colto uno degli elementi simbolici che dominano l’immaginario dell’autore da quando era giovane: il primo video all’ingresso, inizio anni 70, ritrae con tecnica volutamente più rudimentale, il tuffo di un uomo, lo stesso autore in una piscina all’aperto, il movimento che si ferma all’improvviso sulla visione di un corpo inarcato, poi lo splash e la superficie che si ricompone in un liquido specchio di luce solare.

Un altro ingrediente ricorrente è la polvere. Ecco la nebbia grumosa di due corpi, una giovane coppia che avanza, un abbraccio di ombre indistinte nel deserto, fino varcare la soglia invisibile che ne rivela nitide le fattezze. Ecco la pioggia di creta sfarinata che avvolge un uomo a terra fino a seppellirlo, lui e il destino di martire che deve evocare.

Poi c’è il fuoco, potenza creatrice e distruttiva, a rappresentare un’altra vittima e il trapasso di un altro martirio, quello di un vecchio di colore, immobile su una sedia: prima lampi di fiammelle che si accendono come candeline poi il rogo che lo avvolge e lo cancella.

Un terzo consiglio finale. Non affannatevi più di tanto ad individuare i trucchi e gli effetti speciali di cui Viola, da cinefilo e cineasta, si serve come ogni regista, e continua a servirsi col passaggio dalla registrazione su nastro al digitale. Anzi no. Fatelo pure. Scoprirete che a differenza di altri colleghi più modaioli Viola sfrutta le possibilità di linguaggio della tecnologia con parsimonia. Se ne frega di essere considerato poco contemporaneo. Per lui abitare il presente è concentrarsi sulle peripezie di senso del vivere tra piacere, attesa e dolore, ed essere, restare uomo tra altri uomini, che ci collegano all’eternità della specie e al distacco benefico ma sempre più minacciato delle altre esistenze che costellano l’universo. E tessere con tutte le sue invenzioni la tela di un continuo elogio controcorrente alla virtù della lentezza in rovinoso oblio.

Una scrittura al rallentatore è il suo inconfondibile marchio d’autore. Lo stesso fascinoso artificio con cui ha rivisitato, in un lungo ciclo che lo ha reso famoso, l’iconografia e l’immaginario dell’arte italiana. Non perdetevi l’incanto del siparietto dedicato alla Visitazione di Pontormo. Una danza di figure femminili e un inno indimenticabile al mistero della fecondazione e del parto.

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