Ettore Catalano
Su “Catania: due o tre cose che so di lei”

Le voci di Catania

Il nuovo libro di Antonio Di Grado è un atto d'amore per la città distesa sotto il profilo severo dell'Etna. Un ritratto espresso attraverso la parole dei suoi scrittori più caratteristici: da De Roberto a Brancati, passando per autori meno noti come Sebastiano Addamo

Difficile recensire un libro con un titolo “rubato a Godard” (Antonio Di Grado, Catania: due o tre cose che so di lei, Algra Editore, 2022), un saggio creativo che ti prende dalla prima all’ultima pagina, se non ricorrendo al tentativo di scriverne le mie reazioni appena conclusa la lettura: un libro dedicato a Catania, una “trattazione erratica e indisciplinata”, ricchissima e fitta di suggestioni, dedicata a quanti siano disposti a invaghirsi e indignarsi e a indulgere a complicità baudelairiane.

Scorrono sullo schermo (e lo dico di pagine che trasudano amore per la magia del cinema, dei suoi autori, registi e attori) le immagini, stupendamente narrate, delle icone e delle maschere di una grande città che Di Grado perlustra con la fervida passione di un amante e la trepida ansia di un figlio, sorretto dai riferimenti al repertorio letterario da De Roberto a Brancati, ma attento anche a voci meno note e tuttavia capaci di restituirci, come Sebastiano Addamo, l’anima di una città che stava passando, nel cinquantennio 1950-2000, dalla conversazione civile di una favola bella ad un disfacimento e a un degrado affondati in una “ottusa modernizzazione” di città decapitata, priva di idee e obiettivi che ne elevino vista e prospettive.

Una dichiarazione d’amore sofferta e colma di segnali contrastanti, come sempre capita in passioni in cui investi l’anima e a volte te la ritrovi in brandelli, ma a cui aggiungi una irrazionale volontà di pulizia e di sogno, di incredibili e pur necessarie utopie.

Posso citare, in un libro che si legge come un avvincente saggio creativo, solo in estrema sintesi, le pagine su Franco Battiato, isolatosi a “trovare l’alba dentro l’imbrunire”, la Catania protestante e valdese, le pagine del giovane De Roberto che “sgomita tra giornalismo politico, divulgazione scientifica e velleità letterarie”. E ancora un affascinante carteggio di Francesco Guglielmino tra Verga e Brancati, il viaggio affascinante lungo via Alessi, via scoscesa in cui l’autore scoprì, adolescente, il cinema come scorciatoia verso l’eternità per un “cristiano indocile e tremante”, davanti al cancello sciasciano intravisto al limite estremo della sofferenza.

Mirabile il percorso disegnato nel misterioso, enigmatico mondo delle Madri che abitano il sottosuolo catanese quali “imperiose divinità femminili” nel tragitto affascinante che tiene insieme, nel piacere complicato della letteratura, Vittorini e Sofocle, Goethe e Bachofen, Pirandello e il perturbante alla Hoffmann, Jung e Pasolini, una feroce lettera tratta dall’epistolario derobertiano e le mamme siciliane di Brancati, un immaginario lacerato tra il privato e l’inconscio collettivo “arcaico-rurale, fitto di simboli e di enigmi”, il matriarcato su cui ha scritto “pagine inconfutabili” Sciascia e l’appello ad una “spiritualità” irrequieta e spavalda. Un viaggio tra memorie letterarie e il “brusio dei sogni” che si muove tra preziosi reperti e ardite indagini, come scrive Di Grado, ricche di quella felice anarchia della ricerca libera dagli algidi algoritmi dell’omologazione.

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