Giuseppe Traina
A proposito di “Pensa il risveglio”

Profondità del male

Il nuovo romanzo di Alessandro Cinquegrani è una riflessione raffinata e avvincente sulle ragioni del male. Quasi un racconto filosofico che trae spunto da due amici che lavorano a una sceneggiatura su Albert Speer e Joseph Mengele

Il lettore fedele dei romanzi di Andrea Vitali si astenga dal leggere Pensa il risveglio di Alessandro Cinquegrani (Terrarossa edizioni, 2021). L’autore trevigiano, al suo secondo romanzo dopo Cacciatori di frodo (Miraggi, 2012), richiede un lettore non disposto soltanto a farsi cullare dalle acque tranquille di un lago sulle cui rive esilissime trame si dipanano a partire da pettegolezzi di paese, ma un lettore che sia pronto a seguirlo lungo un plot che procede per salti tra piani logico-temporali diversi e che, soprattutto, accolga l’idea che una narrazione apparentemente realistica possa sterzare rapidamente verso una dimensione onirica o surreale, senza perdere in forza rappresentativa, anzi acquistando in potenza immaginativa e tenendo ben dritta la barra dell’etica, che è poi la preoccupazione costante di Cinquegrani autore non solo di romanzi ma anche di saggi di critica letteraria e cinematografica.

D’altra parte, se siamo disposti ad accettare tali sfide quando vediamo un film come Matrix o come Inception, o quando seguiamo le più strampalate serie televisive, per quale innominabile forma di pigrizia non dovremmo accettarle quando leggiamo un romanzo? Anzi, se ci riflettessimo un poco, è proprio accettando le arditezze che un autore si concede nella costruzione di un intreccio che il lettore accetta di farsi ricondurre alle fonti del genere romanzesco, alle sue sorgenti più pure che mai hanno autorizzato l’idea che l’intreccio romanzesco debba filare linearmente e senza fermate, come un treno ad alta velocità.

Ma torniamo a Pensa il risveglio, titolo prelevato da un verso di Saba, poeta da non dimenticare e che Cinquegrani ha studiato a fondo nel suo Solitudine di Umberto Saba (Marsilio, 2007). Dopo un prologo che ci proietta verso un futuro distopico ma molto somigliante a un passato ben noto, quello della Germania nazista, dal primo capitolo apprendiamo che quel che abbiamo letto nel prologo appartiene a una sceneggiatura che due amici (il regista Lorenzo e il suo sceneggiatore Alberto) stanno scrivendo, a partire dalla ricerca storica condotta da Lorenzo sulle figure dei gerarchi nazisti Albert Speer e Joseph Mengele (nella foto accanto al titolo) – ovvero l’architetto preferito di Hitler e il ripugnante medico teorico dell’eugenetica – e della quale Alberto, che è anche la voce narrante, sta apprendendo la portata vasta e rigorosa ma anche ossessiva.

Ma Lorenzo scompare e la sua scomparsa provoca in Alberto (che prova a ritrovarlo insieme a Caterina, la donna di Lorenzo, che via via si accosterà a lui secondo modalità sorprendenti, tanto per il personaggio quanto per il lettore) una serie di rivolgimenti interiori che sono tra gli ingredienti più efficaci del romanzo. Per esempio, approfondire la conoscenza delle figure storiche di Mengele e di Speer lo porta a confrontarsi con l’opzione morale tra il rimanere fedeli alla propria identità a costo di vivere una vita in fuga, come ha fatto Mengele, o, invece, riconoscere parte delle proprie colpe, adattandosi al post-nazismo ma cavandosela con una condanna minima, come ha fatto Speer, dimostrando ottime doti da camaleonte politico.

Il disagio si insinua molto in profondità, in Lorenzo e nel lettore, se si pensa quanto sia già difficile ammettere che due criminali nazisti possano essere all’origine di un dilemma morale: e, di disagio in disagio, Lorenzo e il lettore si ritrovano alle prese con quelle che il personaggio stesso definisce «crepe», ovvero «l’ennesima prova che in questa storia c’è qualcosa che non va, che qualcuno, forse, si sta prendendo gioco di noi» (p. 82): crepe nella vita e crepe nella narrazione, che potrebbe – ma non succede – in esse precipitare, come quando la terra si spacca sotto i piedi per un improvviso terremoto, e si intravede un “mondo di sotto” che pure può comunicare con il “mondo di sopra” ma purché si accetti proprio l’esistenza di queste “crepe”.

Di terremoti, concreti e metaforici, Pensa il risveglio non è avaro: e conferma così la possibilità di precipitare verso una dimensione apocalittica che è tipica di una narrativa che sappia camminare, senza vieti scrupoli di verosimiglianza, sull’abisso fra realtà e sogno/incubo. Dichiara Cinquegrani in un’intervista: «Io credo che la realtà sia sopravvalutata, e credo che il realismo inteso nel senso più rigido e banale sia sopravvalutato. Da lettore chiedo a un romanzo di mostrarmi il rovescio della realtà, ciò che vi si nasconde dietro. Ed è quello che tento di fare come autore. La visione onirica non è separata dalla percezione della realtà, sono due universi che si contaminano continuamente». 

Ma va sottolineato che la differenza fra tanta filmografia o romanzeria contemporanea che gioca con il filone apocalittico e un romanzo serio come questo sta proprio nella costante presenza della dimensione morale: lungi però dal pensare che tutto si risolva in facili contrapposizioni manichee, che sono anzi un’altra “bestia nera” dell’autore (il quale, nella stessa intervista, dichiara: «Superare la contrapposizione tra bene e male è la cosa più sorprendente, secondo me»). Gli studi condotti da Cinquegrani, non soltanto su Primo Levi ma su molte altre voci testimoniali degli orrori nazifascisti, sono stati poi sapientemente ricondotti, nei loro nuclei morali essenziali, a non poche manifestazioni della cultura contemporanea (tra cinema, arte e letteratura, in una felice dimensione intermediale) e rielaborati in un libretto molto denso di spunti utili per la strettissima attualità: Il sacrificio di Bess. Sei immagini su nazismo e contemporaneità (Mimesis, 2018).

Da questo substrato di studi, ma pure di interrogazioni anzitutto interiori, sortisce anche Pensa il risveglio, con la sua necessità morale: fare i conti col passato e con quel che dal passato “precipita” dentro di noi senza che ci se ne accorga minimamente perché si tratta di cose che hanno la tendenza a restare «sommerse in uno spazio incendiato e muto» (p. 32); fare i conti col futuro, con l’imposizione di certe scelte che tale prospettiva comporta (non ultima la paternità/maternità, come il romanzo suggerisce), e con la consapevolezza che questi conti non torneranno mai se non si sono fatti prima quelli col passato (anche nella prospettiva della paternità/maternità, ecco l’importanza decisiva del fare i conti coi tanti padri che incombono su ognuno di noi). E poi la tentazione di nascondersi, o di acquattarsi all’ombra degli altri, perfino vampirizzandone le esistenze, gli affetti, le abitazioni. Scelta (o, piuttosto, non scelta) comoda, se non arrivasse, prima o poi, l’opportuno “risveglio” della coscienza, ineludibile se non a prezzo di gravi catastrofi, appunto.

Volutamente s’è detto poco della trama di questo romanzo, per non togliere al lettore il gusto di scoprirne i risvolti più segreti e, spesso, inattesi. Ancor peggio sarebbe anticiparne la conclusione. Vale però la pena di ribadire l’importanza della scelta di Cinquegrani di affrontare personaggi dello spessore malefico di uno Speer o di un Mengele: dopo tante riflessioni, opportune ma ormai un po’ sazievoli, sull’harendtiana banalità del male, perché non ritornare a misurarsi con la «profondità del male» (p. 33), visto che, peraltro, tante maschere dell’odierno immaginario finzionale collettivo non fanno altro che riproporla? Ma – ecco il punto – perché cercare questa “profondità del male” solo nell’universo distopico dei fumetti o dei blockbuster cinematografici, se la storia ce ne ha servito le fattezze su un piatto ancora orrendamente bollente? Per il tramite di Lorenzo, Alessandro Cinquegrani tematizza tutto questo in uno dei non rari intermezzi metalinguistici del romanzo: «dalla realtà le suggestioni si tramutano in storie che stupiscono, distopie naturali, fantapolitiche. Ma il fatto che io stia pensando al film e non all’abominio di queste storie fa di me un uomo piccolo e mediocre, con un orizzonte minimo del quale mi vergogno» (p. 35).

Forte di un suo cristianesimo provocatorio e inflessibile, che è tutt’uno con la sua cifra stilistica, Cinquegrani lancia al lettore il guanto di una sfida a riflettere sulle pieghe e sulle piaghe morali nascoste (talvolta molto bene) nelle pieghe della Storia, per riflettere sul fatto che «è solo nello scandalo dell’estremo che l’uomo rivela se stesso. Dallo scandalo dell’estremo emerge la verità» (p. 81).

Non lasciamo cadere questa sfida, non accontentiamoci di Andrea Vitali.

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