Danilo Maestosi
Alla Galleria La Nuova Pesa di Roma

Arte sul tovagliolo

Inseguendo il mito della vecchia “Osteria dei pittori” (quella dove a Roma negli anni Cinquanta si fronteggiavano astrattisti e figurativi), Roberto Gramiccia confeziona una mostra collettiva in cui artisti di generazioni e scuole diverse riflettono sul fare arte

Osteria dei pittori. È il titolo di uno struggente diario di ricordi scritto dallo sceneggiatore Ugo Pirro e pubblicato da Sellerio quasi trent’anni fa. Racconta le vicende della comunità di artisti, intellettuali e scrittori che per un decennio a partire dagli anni ‘50 ha animato la trattoria dei fratelli Menghi in via Flaminia a due passi da piazza del Popolo, che allora era l’epicentro della vita culturale di Roma. A via Margutta, dove abitava Fellini, e nel fazzoletto di traverse del Tridente su fino a via Condotti e via Frattina le case avevano ancora prezzi abbordabili e pittori e scultori, tutti più o meno squattrinati, riuscivano facilmente a trovare, magari in condominio, studi a portata delle loro tasche. Il boom cominciava a far sentire i suoi effetti: a sigillarne l’avvento sarà lo sbarco di Hollywood a Cinecittà. Ma giravano ancora pochi soldi, ci si arrangiava con quello che c’era.

Come l’osteria Menghi: cucina romana alla buona e ampio credito agli artisti, che saldavano il conto alla prima vendita o lasciando qualche opera ai proprietari. Si mangiava benino e si discuteva molto ai tavoli dei fratelli Menghi. Di politica, partendo dalle varie posizioni della sinistra, in cui in pieno regime democristiano e nel clima pesante di guerra fredda, la stragrande maggioranza dei commensali e i primattori dell’intellighentia capitolina si riconosceva. Ma soprattutto d’arte. A tener banco era la disputa fra chi, sulla scia di Guttuso e del suo cubismo addomesticato, sposava in nome dell’impegno la linea del realismo propugnata da Togliatti e chi rivendicava la creatività dell’astrazione. Tra gli eretici oltre a Mario Mafai, già capofila della scuola romana, che cominciava a sperimentare nuove strade, Consagra, Corpora, Turcato, Sanfilippo, Accardi, Dorazio. In mezzo si affacciavano con Vespignani e Calabria i teorici di una nuova figurazione.

Teatro di questi dibattiti che a volte finivano a cazzotti, l’osteria dei pittori era diventata una sorta di monumento da mostrare agli ospiti e ai turisti importanti. La delegazione che accolse Pablo Picasso in visita a Roma dopo il suo pronunciamento di adesione al comunismo lo portò anche lì. E Picasso marcò questa sua apparizione lasciando sulla tovaglia di carta del ristorante uno schizzo improvvisato divenuto leggenda. Usava tra i clienti pittori lasciare così traccia e ricompensa del proprio passaggio. Spesso dipingendo sui tovaglioli che la padrona del locale ha collezionato e i suoi eredi conservano ancora, oppure hanno venduto quando l’osteria è stata ceduta per far posto a un ristorante cinese.

Settant’anni dopo Roberto Gramiccia, medico, collezionista e saggista d’arte, cerca di dissotterrare dagli abissi della memoria quel mitico luogo di ritrovo e quell’abitudine, convocando in una prestigiosa galleria del centro, la Nuova Pesa di via del Corso, messa generosamente a disposizione da Simona Marchini, cinquanta pittori di varie generazioni, fornendo ad ognuno un tovagliolo di cotone quadrato, 53 cm x 53, e invitandolo a lasciarvi la propria testimonianza. Osteria dei pittori: il nome che battezza la mostra, raccolta in un unica grande sala, è già in se un manifesto d’intenti, che sposa la necessità e insegue la possibilità di recuperare almeno in parte quello spirito di solidarietà conviviale che si respirava nella trattoria sulla Flaminia, e che una trentina d’anni dopo ha dato aura ed impronta ad un altro ristorante di San Lorenzo, Pommidoro in piazza dei Sanniti, il cui proprietario è recentemente scomparso.

Foto di Giorgio Benni

Una bella proposta che ha fruttato molte lusinghiere recensioni e segnalazioni sulla stampa e sui siti online, affamati di tendenze e di occasioni retrò, in una cronaca impoverita dal clima e dalle restrizioni della pandemia. Ma anche una mossa rischiosa, come tutti gli appelli a rivisitare un passato che non può tornare, che generano il torcicollo di nostalgie e rimpianti. E pilotano lo sguardo verso metri di confronto piuttosto scomodi. E imbarazzanti in un presente come quello che stiamo vivendo: l’incubo del covid che ha ridotto occasioni e mercato per tutti, la pittura e le arti di tradizione relegate dalle mode del contemporaneo in un vicolo cieco di stentata sopravvivenza. Roberto Gramiccia è riuscito a scongiurare questo pericolo evitando di imporre agli artisti di età e carriere di caratura diversa, selezionati con grande attenzione alla qualità, il vincolo di un tema specifico. Ma la tentazione di un salto all’indietro alla ricerca del tempo e del senso del proprio lavoro sempre più in crisi ha comunque contagiato e ispirato molti partecipanti, spingendo i loro lavori oltre i confini della routine di una collettiva qualunque o di una partecipazione di circostanza verso sponde di domande, dubbi, fantasmi di certezze svaporate da condividere anche come punto di ripartenza , promesse d’ incontri e confronti più impegnativi a maschere calate, come in occasioni ufficiali o nel linguaggio utilitario e spiccio dei social non succede ormai più.

Inevitabile, certo, un sapore diffuso di malinconia. Non tutte le sbronze o gli appuntamenti davanti ad una mensa finiscono in allegria.

Trasuda tristezza da congedo l’omaggio che Giuseppe Modica (nella foto accanto al titolo) ha impresso sul suo quadrato di cotone Ritrae una tavola sparecchiata, la stoffa impregnata di briciole, macchie di vino, un cucchiaio e una forchetta dimenticati a ricordare che si è già mangiato. Nella sua memoria da testimone diretto Ennio Calabria evoca nell’alto della tela un’atmosfera da gioco che subito s’incupisce investita da una macchia dì ombra, in cui legge il volto allarmante del presente. Altri invece tornano al passato attraverso la traiettoria del mito e del mistero: ecco Stefano Di Stasio, fedele al titolo di anacronista che Maurizio Calvesi gli ha assegnato, celebrare una sorta di comunione impossibile col pane e col vino, verso cui si protende una mano segnata da una piaga rossa di santità perduta. Ecco Aurelio Bulzatti ritirarsi in una remota, ombrosa immagine di una coppia di commensali di un antico convivio.

Altri seguono invece l’ispirazione degli sviluppi formali cui sono approdati. Ecco Marco Verrelli calarsi col suo sguardo da archeologo del modernariato nel flusso nostalgico del tempo passato bloccando in un fotogramma retrospettivo l’icona del tram che corre ancora lungo la Flaminia come ai tempi d’oro dei fratelli Menghi. Ecco Franco Mulas firmare la sua presenza con un ovale da volta barocca acceso dall’ emulsione di colori e di segni a cui si sta appigliando per dare un senso alla sua solitudine di pittore. Ecco Andrea Aquilanti trascinare sul tovagliolo uno dei fantasmi che insegue da anni, mescolando immagini stampate e segni sovrapposti a matita. Ecco Angelo Colagrossi annegare il nostro sguardo nelle trasparenze di una tela che abbraccia una vertigine di oggetti da officina, seghe, pinze, tenaglie, relitti dispersi di un naufragio remoto.

Figurativi e astrattisti uno accanto all’altro. Perché non sono più i tempi in cui le due fazioni si facevano la guerra, immaginando ognuno dalla propria postazione una rivoluzione possibile. E vien da pensare che sia davvero un peccato, perché in quell’affannarsi a definire le proprie posizioni c’era una tensione di pensiero e azione che la pittura ha perduto. Un benefico metterci la faccia per misurarsi, ci ricorda con amara ironia il quadro in cui Elena Nonnis mette in posa Dorazio, Carla Accardi e gli altri combattivi astrattisti del gruppo Forma 1, assidui clienti dell’osteria, ritraendone solo le sagome senza volto.

Chi sogna e disegna paradisi alternativi come Luca Padroni. Chi dipinge l’incanto d’un tramonto sul fiume, che gli ha acceso lo sguardo come una sorsata di vino, come Gianni Politi. Chi sembra inseguire un orizzonte di fuga in un’isola lontana come Mauro Magni. Chi si confessa senza pudore sognatore che fabbrica stelle e poi le incolla nello spazio come Felice Levini. E chi invece come Valeria Cademartori ci sbatte davanti un presente più doloroso, quello delle migrazioni, che la sazietà di una buona cena non può cancellare. Chi come Bruno Ceccobelli ci ride su, immortalando come un gioiello un piatto di spaghetti.

Un coro di voci – qualcuna anche stonata – che inquadra con molta precisione il potenziale che la pittura, nell’infinita varietà dei suoi approcci, può esprimere. E invita a continuare. Portando in giro in altre sedi, altre città, altri luoghi istituzionali. È l’impegno sigillato dalla cerimonia di presentazione del catalogo svoltasi all’Accademia di San Luca.

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