Lorena Piras
Tra cronaca e memoria

Storia di Tomasiello

Dalle carte processuali (e dalle ultime testimonianze dirette), è possibile ricostruire una storia esemplare: quella di Giuseppe Tomasiello, un "normale" agente carcerario che venne ucciso dalla furia distruttiva di un recluso nel 1960

1958, Cairo Montenotte. Classe 1933, beneventano, nella scuola agenti di Cairo Montenotte Giuseppe Tomasiello aveva imparato a conoscere i fantasmi dei detenuti: la noia, le domandine per tagliare i capelli o per una coperta in più, i giudici, le sentenze. Ma nonostante questo, nonostante sapesse che l’agente diventava bersaglio naturale dell’insoddisfazione e della frustrazione di quegli uomini, sapeva anche che l’umanità è alla base di qualunque rapporto.

Negli stessi giorni, in Sardegna, un giovane come lui, Edoardo Corsi, pagava la scelta di una strada che per lui era senza via d’uscita.

Dopo il giuramento, per Tomasiello arriva la prima destinazione: Porto Azzurro. Le giornate di lavoro e lo studio riempiono le lettere che la giovane guardia invia alla famiglia quando arriva la novità della seconda assegnazione: Tramariglio. Dove ad aspettarlo non c’è solo la radura di Porto Conte con la sua malinconica natura. C’è il destino. Nei panni di Edoardo Corsi, triestino biondo con un occhio di vetro.

Colonia Penale di Tramariglio, Alghero, 22 gennaio 1960. Giuseppe Tomasiello ed Edoardo Corsi come ogni mattina indossano le proprie divise.

Camicia di cotone, camiciola di lana a maniche lunghe, pantaloni grigio verde, scarponi di cuoio nero e berretto dell’uniforme degli Agenti di Custodia per Tomasiello e maglia di lana, pantaloni e mutande lunghe matricola 4619 appartenenti all’Amministrazione Carceraria per Corsi. 

Se un delitto può non avere movente ma non può non avere un passato, quello del suo autore, il passato di Edoardo Corsi, basta a spiegare quello che è accaduto vicino ad Alghero in quella mattina di gennaio?

Chi era Edoardo Corsi è cristallizzato a pagina 14 della perizia psichiatrica presentata per il ricorso in Appello nel 1962 dal Professor Annibale Rovasio: «Un autentico delinquente nel quale la violenza innata, l’intolleranza per qualunque forma di disciplina o legge, l’edonismo, l’arroganza, il mendacio saturano la sua personalità soffocandone ogni espressione di umanità».

Ancora due anni e avrebbe finito di scontare una breve condanna per quei furti a Trieste, iniziati da ragazzino e continuati per tutta la vita tra scuole, gioiellerie, e chiese.

Rubava perché era più semplice che lavorare, per non avere capi né regole. E rubava sempre rompendo una finestra, sempre lasciando disordine, distruggendo per il gusto di distruggere.

Colonia Penale di Tramariglio, Alghero

Scontata la pena, diceva di voler raggiungere il padre a Canberra. Lo diceva sempre, lo ripeteva a tutti che voleva cambiare vita. Ma dire una cosa non significa pensarla. La verità la diceva quando fantasticava a voce alta su come sarebbe evaso: colpendo sulla testa la guardia, frugandole nelle tasche e scappando. E ci aveva anche provato, alla Gorgona. Quella volta, la guardia, l’aveva solo stordita. La libertà aveva la forma di una zattera, l’imprevisto quella del vento contrario. Venne ripreso: il sogno gli si sgretolò tra le mani mentre i ferri gliele bloccavano ancora una volta.

Toscana e Sardegna, strade parallele che si incontrano a Tramariglio.

Corsi, il ladro che lavora come elettricista.

Tomasiello, la guardia che lo deve controllare.

Perché Corsi è un “consegnato”. Troppo pericoloso per lavorare da solo.

Carceri Giudiziarie di Sassari, 27 gennaio 1960, h 10.30. Corsi risponde alle domande del Procuratore della Repubblica, Alfonso Crispo. «Il 22 corrente verso le 7.30 uscii dalla centrale di Tramariglio insieme alla guardia Tomasiello e con il camion fummo accompagnati al bivio di Porticciolo e quindi ci dirigemmo alla cabina elettrica in località Prigionette. Eseguii il mio lavoro e nel rientrare ci fermammo per riposarci. Mentre eravamo seduti al Tomasiello domandai che ora fosse ed egli mi disse che erano le 11.10. Mi alzai e gli dissi di andare a mangiare ed egli mi rispose testuale di non rompergli il cazzo. Iniziammo a litigare, lui prese la pistola minacciandomi dicendo “se ti sparo non la pago”. Non so, non ricordo cosa avvenne dopo. Fino a un certo punto i particolari sono chiusi nella mia mente, ma adesso sono confuso, non ricordo. Ma tanto è inutile, perché i giudici sono più creduti di me».

«Quel che è fatto è fatto», continua, mettendo le mani avanti e ripetendo la sua versione come un disco rotto.

Quel che è fatto, è un omicidio.

Quello che accadde dopo e che Corsi dice di non ricordare è una serie di martellate, almeno sei e più di dieci, sulla testa di Tomasiello. Una mazzetta da mezzo chilo che si alza e si abbassa sul giovane agente, dall’alto verso il basso, da dietro, mentre, indifeso e distratto, era seduto.

Forse Corsi si ricorda di quei soldi visti giorni prima in un cassetto nella sala convegni mentre vi lavorava.  L’occasione gli si presenta così, improvvisa: un attimo di pausa. Lo racconta la scena che troveranno poco dopo i militari accorsi dalla diramazione centrale. Il berretto di Tomasiello è a terra, integro e pulito. A terra anche una tabacchiera e una sigaretta non completata. Un momento di fiducia fatale in cui le parole del Direttore della scuola agenti, quando diceva che mai, mai bisognava dare le spalle a un detenuto, erano lontane.

Le ricerche iniziano solo nel pomeriggio. A volte succedeva che i detenuti non rientrassero per pranzo. Ma adesso è davvero troppo tardi, c’è la distribuzione del secondo rancio, e i due non sono ancora rientrati. Deve essere successo qualcosa. Partono le ricerche e poco dopo Tomasiello viene trovato agonizzante. Chi lo trova ha 23 anni, si chiama Giuseppe anche lui. Spara in aria. Dalla Centrale arrivano altri soccorsi.

I luoghi, quella natura brulla e nuda che Giuseppe Tomasiello trovò quando lasciò Porto Azzurro, sono descritti dal Procuratore Crispo nel verbale di sopralluogo. «(…) ci inerpichiamo a sinistra sul costone dle Monte Timidone, ricoperto di cespugli di lentischio e di altra bassa vegetazione selvatica caratteristica della flora sarda e della zona in specie; dal terreno, sdrucciolevole per la presenza di piccole pietre di apparente natura calcarea emergono gradini rocciosi. Detto costone guarda verso il mare e viene attraversato da una palificazione che regge la linea della corrente elettrica necessaria alla Casa penale. Giunti al palo 82 iniziamo la visita del luogo dove fu rinvenuto il Tomasiello».

Lasciamo per un momento il Procuratore Crispo. Chiudiamo il fascicolo, usciamo dall’Archivio di Stato di Sassari. A volte è impossibile riempire i vuoti tra un’informazione e l’altra, il tempo crea voragini che ingoiano tutto: il mai scritto, perché mai raccontato. Ma a volte la memoria la si può acciuffare, i vuoti si possono colmare e si può scrivere, perché c’è chi racconta.

 Alghero, agosto 2021. Giuseppe Pisoni, Peppino, ha 84 anni. Quinto di nove figli, a Tramariglio faceva la guardia a cavallo. «La nevicata del ’56 ci rovinòmi dice nella sua casa algherese dove vive con la moglie («abbiamo festeggiato i cinquanta anni di matrimonio a Tramariglio») e un gatto, davati a un liquore al finocchietto preparato da lui. –Noi eravavamo contadini, avevamo campi, carciofaie, bestiame. Perdemmo tutto così decisi di arruolarmi. Feci la scuola a Cairo Montenotte, la stessa di Tomasiello ma non ci incontrammo perché lui finì prima del mio arrivo. Non solo era un ottimo agente, ma era una persona buona. Con lui spesso facevo il turno di notte, lui era attrezzato con il suo zainetto. Aveva il fornellino, preparava il caffè per tutti noi del turno. Era generoso. La notte prima dell’omicidio, gli vinsi un caffè al biliardino. Fu l’ultima volta che lo vidi, lo salutai dicendogli che l’indomani avrei riscosso quel caffè. Quando il giorno dopo, era pomeriggio, saranno state le 15.30, si sparse la voce che non era rientrato, io avevo finito il mio giro e stavo riportando il mio cavallo nella stalla. Appena capii che era uscito con Corsi con un collega uscii subito a cercarlo. Ora impiegherei tre giorni per fare quella strada, ma allora ero giovane, mi arrampicai. Sentii un rantolo, lo trovai a terra in una scarpata, la testa fracassata. Per terra c’era una sigaretta non completata. Lui non aveva più la pistola. Sparai tre colpi in aria per dare l’allarme. Caricai il mio amico Tomasiello sulle spalle. Pesava. Cercavo di non fargli altro male. Ancora oggi sento il suo braccio aggrappato a me. Non so se era un riflesso, non so se in qualche modo lui sapeva che ero io che stavo facendo l’impossibile per salvarlo. Quel braccio lo sento ancora oggi. Nell’immediato nessuno mi ha aiutato a superare quel momento, il lavoro mi distraeva. Anni dopo, ero già sposato e avevo i miei quattro figli, ho sognato che si tuffava e non risaliva più, allora mi sono tuffato anche io, ma lui era avvolto dalle alghe che lo tiravano giù. Non riuscivo a fare nulla. Le alghe tiravano, tiravano…».

Stringe i pugni al petto, Peppino. «Chissà se sapeva – ripete. – Raggiungemmo la strada. Dalla Centrale era arrivato il Direttore con la Seicento. Il mio amico Tomasiello venne portato all’ospedale Santa Chiara di Alghero, poi lei sa come è andata».

Lo so. È scritto nel fascicolo. Il letto di ferro, le bende, le fasciature macchiate di sangue. Due giorni di non vita, prima di morire. Sfondamento della scatola cranica.

Il carcere di porto Azzurro

Corsi rimane latitante per tre giorni, vuole arrivare a Porto Torres e imbarcarsi per il Continente.

La prima notte ingoia l’evaso che svanisce confondendosi con il buio.

Ritorna alla Centrale, sfonda una finestra, ruba poco più di duecentocinquantamila lire dalla sala convegni dove pochi giorni prima aveva sistemato le luci, facendone un rotolo che tiene tra la pelle e la camicia, all’altezza della cintura.

Seconda notte, Fertilia: un’altra finestra rotta, ruba una camicia per spogliarsi della casacca da detenuto.

Da Fertilia arriva un piper, da Cagliari i cani. Lo fiutano anche, abbaiano, ma il triestino è più veloce e riesce a scappare. Forse si nasconde al porto in qualche barca. I cani a un certo punto si fermano, Corsi no.

Terza notte, Sassari: Edoardo Corsi non sa di essere diventato un assassino. Sogna il treno per Porto Torres, la nave, il continente. La libertà.

È nascosto in un canneto a Sant’Orsola. Si sente sicuro. Non sa che i proprietari di quel terreno, un ex carabiniere e un carrettiere, quel giorno sono usciti di casa con i fucili per spaventare una colonia di cornacchie che mangiava le loro olive. Sentono dei rumori. Si avvicinano. Vedono un uomo che indossa pantaloni da carcerato. Lo riconoscono. Riconoscono quell’evaso di Tramariglio di cui parlano i giornali. Corsi prova a tirare fuori la Beretta rubata a Tomasiello, offrendo loro tutto il denaro che ha.

Non serve a nulla.

Non ci sarà nessun treno, nessuna nave, nessun continente.

Edoardo Corsi entra al carcere di Sassari poco più tardi. Le cronache lo raccontano tremante e piangente.

Al Procuratore Crispo dice che non ha mai mangiato, se non dei cavolfiori crudi l’ultimo giorno, a Sassari. Che si è abbeverato a diverse sorgenti, che non ha parlato con nessuno e che non si spiega come mai non ha con sé l’intera cifra rubata. Forse ne ha perso una parte, o forse chi lo ha arrestato gliela ha rubata a sua volta. «Ma naturalmente, Dottore, con ciò non voglio accusare nessuno, non potendo escludere lo smarrimento in maniera assoluta».

Ogni sua parola su quel giorno alle Prigionette viene smentita. Dalle tracce di sangue, dalla direzione e dalla violenza dei colpi, dalla parte presa di mira, dal carattere di Tomasiello che mai si sarebbe rivolto a qualcuno con quei termini, dalle lesioni alle braccia, semplici graffiature dovute alle sterpaglie e non a una mai avvenuta colluttazione. E da quei sogni di evasione detti a voce troppo alta per troppe volte.

Tribunale di Sassari, 14 aprile 1960. «Tenute presenti la particolare gravità dei fatti delittuosi commessi dal prevenuto, il cinismo e la brutalità con cui soppresse il Tomasiello, i precedenti penali e la pericolosità del Corsi, non si ritiene che questi sia meritevole di attenuanti».

Edoardo Corsi è dichiarato responsabile dei reati a lui ascritti e condannato all’ergastolo con isolamento diurno per la durata di un anno.

All’agente Giuseppe Tomasiello, nel 2013, vengono intitolati la Casa di Reclusione di Alghero e il Museo della memoria carceraria di Tramariglio.

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