Attilio Del Giudice
Una storia inedita

La sorpresa

«In un silenzio reso sacrale dalla presenza della morte, ebbe l’idea che la cosa migliore fosse di liberarsi del cadavere, di portarlo fuori casa, di sbarazzarsene. Quell’uomo era smilzo, di media statura, col volto emaciato, come di chi abbia avuto una vita sofferta...»

Il 5 novembre del 2018, alle 16 e 30, il noto scrittore Ettore Maria Ferruzzi consegnò al dottor Manacorda, simpatico capo ufficio stampa dell’editrice Orizzonti Narrativi, il plico contenente le sue storie; di queste storie s’era concordata con la redazione la pubblicazione in una collana editoriale, prima delle feste di Natale.

Non vogliamo esprimere giudizi critici su questi ultimi racconti di Ferruzzi, possiamo dire solo che erano tutti ispirati alla realtà e che i personaggi e le situazioni ci erano parsi decisamente intensi e verosimili. Lui giustamente si aspettava il solito discreto successo, che, in verità, aveva sempre accompagnato il suo lavoro di narratore. Con questo pensiero e con un leggero compiacimento nello spirito, si avviò verso casa a piedi, come soleva fare spesso, sulla base di un caldo consiglio del suo amico medico Antonio Moratti.

Per la strada cominciò a pensare alle linee guide della conferenza che avrebbe tenuto l’indomani. Il tema era impegnativo e avrebbe innescato giudizi critici, opinioni discordanti e qualche consenso fra i suoi più devoti seguaci. Si trattava di analizzare il grado di possibilità della scrittura narrativa nel raggiungere il puro Realismo, praticamente quanto potevano interferire lo stile, la gestione delle forme linguistiche, la poetica e la stessa interpretazione del mondo da parte dello scrittore, senza contare l’influenza generale delle ideologie e il peso delle condizioni momentanee di natura politica e sociale.

Arrivò a casa con questa impostazione ideativa ed entrò in salotto per servirsi di due dita di Cardenal Mendoza, il brandy spagnolo, che da sempre preferiva e che riteneva essere di molto superiore ai celebrati cognac francesi. Andò poi nel bagno per una minzione, indossò la sua elegante vestaglia da camera e, infine, si avviò verso lo studiolo, che si trovava in fondo alla casa e che era stato ricavato da un terrazzino panoramico. In questo ambiente luminoso erano nate le sue opere, le sue trame, i suoi personaggi, che ricordava cordialmente come fossero persone di famiglia.

Come aprì la porta dello studiolo gli si gelò il sangue nelle vene. Al suo posto con un braccio e la testa abbandonati sulla scrivania c’era un uomo. Sembrava dormisse.

“Chi è lei? Che ci fa qui? Come è entrato?” Disse gridando lo scrittore.

L’uomo non rispose. Ferruzzi si avvicinò e dovette constatare che quel signore era morto.

Non sapeva cosa fare. Chiamare la polizia? Chiamare il suo avvocato? Chiamare il suo amico Vittorio per un consiglio? Il rischio di essere sospettato di aver commesso un delitto, era alto. Non c’era niente che lo potesse scagionare. L’uomo non mostrava segni di colluttazione, non era armato, non sembrava ferito. Come era entrato? Non c’erano segni di porte forzate, di vetri rotti. Tutto sembrava normale, come se quell’uomo fosse stato accolto in casa amichevolmente. Forse lo aveva finito un improvviso malore, un infarto? Ma perché si trovava lì, nello studio? Quali erano le sue intenzioni? Ferruzzi non era al corrente di eventuali inimicizie, non ricordava di aver fatto male ad anima viva. Poteva aver suscitato qualche invidia nell’ambiente letterario, ma niente che potesse far pensare a una vendetta, a un agguato, a una violenza omicida.

In un silenzio reso sacrale dalla presenza della morte, ebbe l’idea che la cosa migliore fosse di liberarsi del cadavere, di portarlo fuori casa, di sbarazzarsene. Quell’uomo era smilzo, di media statura, col volto emaciato, come di chi abbia avuto una vita sofferta. Forse poteva essere sollevato con facilità, doveva pesare poco. Ferruzzi andò a prendere nello sgabuzzino, colmo di vecchie cose inutilizzate, un valigione, che era servito alla buonanima della moglie, quando doveva trasportare la sua roba a Fregene, dove avevano una casa di villeggiatura. Forse, piegando il corpo adeguatamente, sarebbe riuscito a infilarlo e a chiudere il valigione, poi, lentamente, lo avrebbe trasportato fino alla macchina, che era sotto casa. Provò quindi a sollevare l’uomo misterioso e si accorse che il peso era irrisorio, che non superava il peso dei vestiti che aveva addosso. Questo per Ferruzzi fu un prodigio più straordinario e più incredibile di tutta la faccenda. Ma, a quel punto, però, Il nostro scrittore capì. Quel morto non era un uomo reale, quel morto era un personaggio. Meccanicamente pensò a Pirandello, ai personaggi in cerca d’autore, ma si sbagliava. Quel poveretto non cercava un autore, lui l’autore lo aveva già. Era morto perché l’autore se ne era dimenticato completamente, lo aveva escluso dalle teche della memoria, non per cattiveria, non per una rivendicazione, non per un dubbio sulla necessità narrativa del personaggio stesso, se l’era scordato come un fatto naturale, senza accorgersi del male che faceva, se ne era scordato come talvolta si scordano compagni di scuola, conoscenti di famiglia, commilitoni; magari ricompaiono nel ricordo all’improvviso, misteriosamente e un po’ prendono vita, ma per questo signore non era accaduto, lui certamente era rimasto nell’ombra e forse aveva provato a farsi vivo per uscirne, come avveniva per tantissimi personaggi di Ferruzzi, ma, evidentemente, non aveva fatto in tempo.

 Il nostro scrittore ebbe questa illuminazione e si sentì in colpa, ormai però non si poteva rimediare.

Depose la valigia, che pesava veramente poco, nel portabagagli dell’auto e andò ad accompagnare quel personaggio morto vicino alla tomba di suo padre. Forse i due si sarebbero fatti compagnia.

Non raccontò mai questa strana storia. Lui era uno scrittore della realtà ed era quanto mai opportuno conservare la sua identità e il suo discreto successo.


La fotografia accanto al titolo è di Roberto Cavallini

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