Anna Camaiti Hostert
Cartolina dall'America

Il giornalismo malato

Il giornalismo è uno dei malati cronici delle democrazie occidentali. Nella maggior parte dei casi, in tv si cerca solo di aumentare gli ascolti. Litigando e non ascoltando. Mentre occorrerebbe raccontare la complessità. Come consiglia un bel libro di Amanda Ripley

Brian Stelter, giovane promessa del giornalismo americano (nella foto qui accanto), in una recente puntata del suo programma su CNN, Reliable Sources, che fa il punto sulla salute (poco buona) dei media oggigiorno, ha posto un problema davvero essenziale per i nostri tempi cosi divisivi: l’esasperazione del conflitto. Il conflitto, si sa, in ogni democrazia, è essenziale per la sua sopravvivenza, ma quando si raggiungono livelli estremi, troppo alti, allora esso intossica tutto l’ambiente circostante: il tessuto sociale e politico si sgretola sotto il peso di estremismi irriducibili e l’atmosfera diventa irrespirabile. La mediazione, la negoziazione politica perdono ogni significato e ci si arrocca su posizioni esasperate che non consentono accordi di nessun tipo e bloccano qualsiasi azione si voglia intraprendere. Cioè il cuore della politica, come ci ha ricordato Hannah Arendt. Sullo sfondo delle considerazioni di Stelter i fatti senza precedenti del 6 gennaio 2021 con l’assalto a Capitol Hill e il pericolo che essi hanno rappresentato e tutt’ora rappresentano per la democrazia americana.

Ma episodi inquietanti stanno avvenendo ovunque nelle democrazie occidentali che corrono il rischio di indebolirsi. Di cedere il passo a populismi demagogici che, solleticando la pancia del paese stufo della corruzione, di impasse ineliminabili e di una staticità che blocca ogni tipo di decisone ne minano le fondamenta. Stelter si è posto il problema di come i media possano raccontare lo stato delle cose, di come illustrino questa narrativa conflittuale. Cosi ha intervistato Amanda Ripley, reporter investigativa che ha lavorato per Time e ha scritto nel 2021 un libro dal titolo significativo High Conflict: Why We Get Trapped and How We Get Out (Simon & Schuster). In esso la giornalista analizza nei dettagli come raccontare il conflitto e ne enumera vari tipi: da quelli che emergono tra gli attivisti ambientalisti a quelli della politica locale, a quelli tra le gang di Chicago e perfino tra i guerriglieri della Colombia. Ripley nel suo saggio scrive che il conflitto malato riguarda “quella forza misteriosa che conduce la gente a perdere la testa per dispute ideologiche, feudi politici o vendette tra bande. Quella forza che ci lascia svegli di notte ossessionati per un conflitto con un collega, o un parente o un politico che non abbiamo mai incontrato”. Ripley non ritiene che il conflitto sia negativo di per sé. Infatti un sano conflitto è uno strumento utile per democrazia. Esso causa sani scontri, ci serve a vedere le prospettive di altre persone, facendoci mantenere la nostra dignità e permettendo agli altri di mantenere la loro. “Un buon conflitto-afferma Ripley- non collassa entro una caricatura. Noi rimaniamo aperti alla realtà della quale nessuno ha sempre tutte le spiegazioni e ci mostra che siamo tutti connessi”.

Abbiamo bisogno di una buona conflittualità per difenderci, per capirci l’un l’altro e migliorarci e per mantenere sana la democrazia. Un’alta conflittualità al contrario è tossica, “avviene quando il conflitto entra nel feudo dei termini ‘io sono il bene contro di te che sei il male’, quello del noi contro loro”. Il conflitto sano è produttivo, può essere anche acceso e probabilmente non farà cambiare opinione a nessuno, ma permette di capire la prospettiva dell’altro, di vederlo come persona piuttosto che come una caricatura. Il conflitto malato invece ci fa impantanare. Più uno si scontra e si accanisce, più rimane intrappolato. Non si fanno progressi e così facendo si incoraggia un più aspro conflitto. E il circolo vizioso si alimenta.

Il libro è diviso in due parti: la prima esplora come ci si addentra nel conflitto e la seconda come se ne esce.  Tre appendici infine spiegano succintamente come riconoscere il conflitto malato nel mondo e in sé stessi e come prevenirlo.

Nell’intervista, Stelter ha chiesto a Ripley come i giornalisti dovrebbero illustrare i conflitti in questi tempi cosi divisivi, violenti e decisivi per la stabilità della democrazia. La giornalista ha risposto con un’affermazione insolita e profonda insieme. Si deve rifuggire da un comportamento intuitivo che porterebbe a semplificare e ad amplificare il conflitto, perché queste due modalità semplicemente lo acuirebbero ancora di più, istigando alla violenza. Bisogna invece agire contro intuitivamente e restituire complessità al conflitto non intervistando solo i due contendenti, ma anche altri attanti che rendano appieno la complessità della situazione, restituendo alla realtà le sue sfaccettature. E bisogna inoltre essere precisi, specifici, senza cadere nella trappola degli imprenditori mediatici interessati solo ad accrescere lo sharing attraverso l’amplificazione del conflitto; bisogna spegnerne le esasperazioni per ritrovare una dimensione di dialogo, senza esagerare le intemperanze e le posizioni, amplificando invecela diversità delle voci rispetto a quelle dei due litiganti. Cioè uscire da una logica binaria. Questa sembra essere la ricetta per impedire che la violenza si propaghi, si amplifichi attraverso la semplificazione delle posizioni e per garantire la vita sana della democrazia.

Un consiglio da tenere presente anche qui in Italia dove il livello del giornalismo, soprattutto televisivo, già abbastanza compromesso da un costume poco libero e indipendente, negli ultimi tempi si è abbassato in maniera inversamente proporzionale alla litigiosità; dove la deontologia professionale è andata a farsi friggere e le continue interruzioni di chi parla sono all’ordine del giorno, da parte dei giornalisti che non si preoccupano neanche di capire fino fondo le posizioni degli interlocutori che stanno intervistando, i quali peraltro si interrompono continuamente tra di loro. Insomma, dove la zuffa da pollaio la fa da padrona. Gli imprenditori dei media pubblici e privati, manovrati dai partiti che non hanno mai lasciato la stampa italiana veramente libera e unicamente interessati all’aumento dello sharing e non ad una informazione indipendente, ingaggiano i giornalisti stessi, perché in malafede alimentino un conflitto continuo e profondo aprendo al pericolo di un’insofferenza che esalta la violenza. Un male endemico in Italia, ora più che mai da evitare se si tiene davvero al bene profondo della nostra democrazia.

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