Alessandro Boschi
Visioni contromano

Il finto Diabolik

Qualche considerazione in margine a “Diabolik”, il nuovo film dei fratelli Manetti che molti hanno criticato come poco riuscito, ma che in realtà rispetta uno degli elementi cardine del mondo dei fumetti: la "finzione" assoluta

La fortuna di poter vedere solo ora un film uscito da alcune settimane ci dà la possibilità di parlarne senza risentire, casomai ce ne fosse stato il rischio, di quanto letto in proposito. Il film in questione è Diabolik, dei fratelli Antonio e Marco Manetti. Mi ero reso conto, leggendo distrattamente alcune critiche (!?) in proposito (?!) che stava accadendo quanto accaduto con Tre piani di Nanni Moretti. Ovvero parlare di qualcosa che non era il film in questione. Scegliendo di non segnalare le nefandezze più vistose, perché tali sono solo per me e che, intuendone il livello non ho nemmeno terminato di leggere, cercherò di condividere il mio pensiero, così aggiungendo nefandezza a nefandezza.

Non so se i fratelli Manetti siano grandi registi, né se mai lo diventeranno. All’inizio del film, però, fanno una cosa che dei grandi registi è propria: raccontano il film nella prima inquadratura. La camera pressoché fissa riprende l’ingresso di un palazzo: sulla sinistra l’insegna di un’agenzia di viaggi, sulla destra due manichini. Ecco, i manichini. Chi conosce il fumetto sa che le storie prevalentemente si svolgono tra Clerville (che forse nell’idea delle sorelle Giussani era Nizza, chissà) e Ghenf (che nel film è sicuramente interpretata da Trieste). Clerville è chiaramente una città a due dimensioni, perché i suoi abitanti sono a due dimensioni: manca totalmente la profondità umana. Esattamente come nel fumetto in questione. Non parliamo dei fumetti Bonelli, di Tex o di Zagor, e nemmeno di Topolino (o Paperinik) ma di Diabolik. Ecco perché i due manichini. Non è nemmeno detto che la regia li abbia messi di proposito all’inizio, ma mi piace pensare che sia così. Perché spiegano il film, la sua totale inverosimiglianza, che resta tale al di là del suo svolgersi, financo brutale e violento.

La recitazione non è né televisiva né cinematografica. Forse si avvicina a quella dei fotoromanzi. È una antirecitazione: Luca Marinelli/Diabolik non cambia mai tono di voce né cambia l’espressione. Eva, interpretata da Miriam Leone, recita muovendosi come mai una attrice dovrebbe: in maniera palesemente ridondante, enfatizzando tutti i suoi gesti: esemplare la scena in cui rifiuta le avanceas del Giorgio Caron interpretato da Alessandro Roja, o Roia come risulta dai titoli. Il suo capo ondeggia in maniera innaturale, perché innaturale è il suo personaggio e il film intiero. Quindi tutto risulta finto, vuoto. Ma non per questo si può dire che il film non sia riuscito. Anzi. Riesce in quello in cui spesso si fallisce: restituire la falsa veridicità del fumetto, quella dimensione che sta a metà tra la fantasia suggerita dai disegni, punto di riferimento comune e condiviso, e quella suggerita dalla nostra immaginazione, unica e non riproducibile. Certo, mi è molto mancata Altea di Vallenberg. Ma mai disperare.

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