Giuseppe Traina
A proposito di «Questo non è un racconto»

I film di Sciascia

Adelphi recupera gli scritti di Leonardo Sciascia dedicati al cinema. Tra questi, spiccano tre “soggetti” poco noti: due dedicati a temi di mafia e uno scritto per Sergio Leone. Ma dal complesso di queste pagine spunta il ritratto di un vero cinefilo

Il 2021 è stato l’anno del centenario della nascita di Leonardo Sciascia. Fra i libri pubblicati in tale occasione ho molto apprezzato un bel volume critico di Agnese Amaduri (Una ragnatela di fili d’oro. Poteri, inquisizioni, eresie nell’opera di Leonardo Sciascia, Marsilio); un poderoso doppio fascicolo della rivista annuale “Todomodo”, pubblicata dall’Associazione Amici di Leonardo Sciascia e da Olschki, ormai un preciso punto di riferimento per gli studi sciasciani; Sciascia e il cinema. Conversazioni con Fabrizio (Rubbettino) in cui Fabrizio Catalano, uno dei nipoti dello scrittore siciliano, mette a frutto i ricordi familiari e la sua personale vocazione alla regia.

Ma nessuno tra gli autori di questi e altri libri me ne vorrà se mi spingo ad affermare che, in assoluto, il frutto più importante dell’anno centenario appena trascorso è «Questo non è un racconto»,che Paolo Squillacioti ha curato per Adelphi mettendo insieme, come recita il sottotitolo, gli “scritti per il cinema e sul cinema” che Sciascia lasciò inediti (tre testi) o che furono editi ma risultavano dispersi su giornali, riviste e volumi miscellanei. Libro, dunque, perfettamente coerente con il piano complessivo di pubblicazione delle opere di Sciascia per Adelphi: non vi si trovano, infatti, i saggi sul cinema già dallo scrittore raccolti in volume, a cominciare dal celebre La Sicilia nel cinema, raccolto ne La corda pazza. Insomma, «Questo non è un racconto» è un libro sostanzialmente nuovo, perché soltanto agli specialisti erano noti alcuni degli scritti qui contenuti ma anche gli specialisti sono rimasti sorpresi di fronte ai tre “inediti per il cinema” che aprono il volume e da cui conviene iniziare il nostro resoconto.

Due testi, entrambi datati 1968, sono, scrive Squillacioti nell’esaustiva Nota al testo, «soggetti per film non realizzati, stesi da uno scrittore che non era un soggettista»: uno era destinato a Carlo Lizzani (che ne rimase solo parzialmente convinto), l’altro quasi certamente a Lina Wertmüller. Il primo è ispirato alla vicenda di Serafina Battaglia, caso raro di testimone non omertosa che testimoniò in un’aula di tribunale contro gli assassini del figlio; il secondo racconta la tragica vicenda di una ragazza che si trova a essere involontaria testimone di un delitto di mafia e che decide di raccontare alla polizia quel che ha visto, mentre la sua famiglia, pavida, si dispone pirandellianamente a farla passare per pazza. Il contenuto di entrambi i testi è nel complesso coerente (sia pure a un alto livello di semplificazione) rispetto al discorso sulla mafia in Sicilia condotto da Sciascia nei suoi romanzi e saggi degli anni Sessanta: la scrittura è scorciata, paratattica, vi si intuisce lo sforzo dello scrittore (che non era un soggettista) di avvicinarsi allo stile e alle convenzioni del soggetto cinematografico; e, soprattutto nel primo caso, ne vien fuori un’operazione nel complesso interessante, sia pure priva di concreto sviluppo filmico.

Il caso veramente sui generis (e di cui giustamente i giornali hanno parlato molto) è quello del terzo testo, del 1972, frutto ambivalente di un colloquio poco fortunato con Sergio Leone, di un’ipotesi di collaborazione naufragata di cui si parla anche in una bozza di contratto proposto a Sciascia per la sceneggiatura di un film intitolato C’era una volta l’America: ovvero quasi lo stesso titolo (ma la differenza è solo apparentemente minima, dal punto di vista semantico) del capolavoro testamentario di Leone, la cui lavorazione si concluse dodici anni più tardi. E anche il testo rivela non pochi punti di contatto con la complessa vicenda del film, così come venne realizzata da Leone e altri cinque, collaudatissimi sceneggiatori, tra i migliori del cinema italiano (Benvenuti, De Bernardi, Medioli, Arcalli e Ferrini), a partire da un romanzo di Harry Grey.

Ma ciò non basterebbe a farci sostenere che il testo di Sciascia è alla base del film di Leone, perché è vero il contrario: il testo è una riflessione di Sciascia su un’idea espostagli telefonicamente da Leone e che viene problematizzata, non senza ironia, da Sciascia stesso nella forma di un dialoghetto, diderotiano fin dall’incipit: «Questo non è un racconto», appunto. L’ipotesi della collaborazione tramonterà dopo un incontro nel quale, testimone Vincenzo Consolo, Sciascia non dovette trovarsi umanamente in sintonia nei confronti del regista.

Il dialogo appare oggi nient’affatto cinematografico e tuttavia curioso (perfino «misterioso», secondo Squillacioti), mosso, non estraneo a certe modalità espressive sperimentate da Sciascia nei racconti più “hemingwayani” di Il mare colore del vino o nel romanzo Il contesto, pubblicato l’anno precedente dopo un prolungato travaglio: e proprio al plot del Contesto rimanda la quintultima battuta del dialoghetto…

Bisognerà ritornare su questo testo per un doveroso approfondimento critico, perché si tratta di un testo molto interessante e rivelatore: per ora, limitiamoci a ringraziare gli eredi di Sciascia e il curatore per averlo messo a disposizione dei lettori.

I quali proseguiranno la lettura del libretto trovando un’altra sorpresa: due poesie dedicate da Sciascia a Jules Berry e Gary Cooper, due attori importanti nella sua giovinezza di accanito spettatore cinematografico (e Squillacioti ci ricorda l’esistenza di una perduta poesia in morte di Louis Jouvet, altro eccelso attore francese, prediletto da Sciascia e da Gesualdo Bufalino). L’approccio di Sciascia al cinema è spesso lirico e appassionato, come queste poesie dimostrano; ma quel tanto di lirismo che ritroviamo in altri testi scritti in morte di questo o quell’attore o regista – da Buster Keaton a René Clair, da Clara Bow al duplice “coccodrillo” per Gary Cooper e Marylin Monroe – si accompagna sempre a un’analisi critica originale, quasi mai interna alla vera e propria storia del cinema ma sempre attenta ad altri fattori, prevalentemente di tipo sociologico (e un giorno bisognerebbe studiare l’attenzione di Sciascia, soprattutto del giovane Sciascia, per la sociologia, soprattutto americana) o, in senso lato, psicologico: e per testare la consapevolezza di Sciascia circa l’impatto dell’immagine cinematografica sulla psicologia di massa, si leggano soprattutto le parole dedicate alla Monroe e ispirate dal suo ultimo film, The Misfists di John Huston – titolo che giustamente Sciascia ricorda avrebbe dovuto essere tradotto come “gli inadatti” anziché, come fu, Gli spostati. Perché in quel film Marylin, al di là del suo ruolo di icona erotica, incarna per Sciascia l’immagine dell’inadattamento, dovuto secondo lui alla mancanza del «potere della maternità: quel potere il cui esercizio dissolve i traumi del fatale declino del potere sessuale».

Il “Gattopardo” diretto da Luchino Visconti

Se almeno in un paio di casi (il saggio intitolato Dal soggetto al film e la lettera rivolta a Guido Aristarco a proposito del Gattopardo viscontiano) lo scritto di Sciascia dimostra una buona consapevolezza di taluni snodi teorici dell’espressione cinematografica, e se nell’articolo su Angelo Musco non mancano interessanti riflessioni sull’essenza del comico, nella maggioranza dei casi, invece, il nostro scrittore rivela un approccio al cinema che, anni dopo, si sarebbe definito da “cinefilo”: nutrito cioè dall’abbandono al godimento, rivissuto nella memoria, di certe esperienze giovanili da spettatore che possono spiegare, a confronto col presente, talune intolleranze e certi giudizi decisamente troppo tranchants (per esempio a proposito di Bergman e Antonioni) dello spettatore maturo che, in questi casi, indulge a un epigrammismo memore dei prediletti Maccari e Flaiano.

Ma si sa che Sciascia, dagli anni Settanta in poi, diventa uno spettatore cinematografico distratto e disamorato. Alcuni sostengono che questa svolta sia da attribuire ai risultati non felici degli adattamenti cinematografici di alcuni suoi romanzi: «Questo non è un racconto» ci dà la possibilità, nell’ultima sezione del libro, di leggere o rileggere sei testi dedicati da Sciascia proprio a film tratti da suoi testi. E da questa lettura io esco, ancora una volta, convinto che il disamore dell’ultimo Sciascia per il cinema abbia altre ragioni, di natura prevalentemente esistenziale: credo proprio che il cinema, l’esperienza di spettatore al cinema, fosse per lui indissolubilmente legata alla giovinezza e ai ricordi di essa. I ricordi, certo, di un giovane spettatore intellettuale, non di un semplice fruitore passivo di film. A riprova, si legga il brevissimo, splendido, tombeau per Charlie Chaplin che si trasforma in un omaggio non a Chaplin ma a Charlot, al suo tipo di comicità. Il testo andrebbe riportato per intero ma mi limito a citarne la parte centrale: «Charlot era, dico oggi rivivendo il come lo vedevo allora, il giusto del comico, la nobiltà del comico. Nel comico c’è sempre un che di cattivo, di ingiusto, di spietato. La più giusta definizione del ridere mi pare sia quella di Hobbes, che buona opinione dei propri simili non aveva: che scatti, il ridere, dalla rivelazione improvvisa della nostra superiorità sugli altri. Con Charlot invece si rideva direi fraternamente».

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