Michela Di Renzo
Una storia inedita

Il gremlin

«Si mise seduta su una sedia e tirò fuori dalla borsa il cellulare per chiamare suo marito che era di turno, ma fu più forte la curiosità di vedere cosa fosse un gremlin...»

“Ho fatto bene a venire al supermercato a quest’ora, non c’è quasi nessuno”, pensò Marina dirigendosi verso le casse. “E se prendessi una birra artigianale da abbinare alla pizza anziché la solita Peroni?”

Per un attimo si vide davanti Roberto che la assaporava lentamente. Subito dopo suo marito avrebbe detto, leccandosi il labbro superiore ricoperto di schiuma: “Quanto è buona, amara così”.

“Chissà se la serata andrà per il verso giusto anche in un altro senso”, si chiese girando il carrello dal lato opposto e spingendolo velocemente attraverso la corsia mezza vuota. Gli antidepressivi che Roberto stava prendendo avevano migliorato il tono del suo umore, ma non la loro vita sessuale, che era la stessa di qualche mese prima, ovvero calma piatta. Certo, nemmeno lei era più innamorata come il primo giorno, ma desiderava fortemente un figlio. Peccato che Roberto la guardasse come una povera pazza tutte le volte che accennava all’argomento. “Non mi sembra questo il momento di mettere al mondo una creatura”, era la sua risposta abituale.

Dandosi un’occhiata intorno alla ricerca dello scaffale giusto, Marina si vide passare accanto una ragazza per mano a una bambina di cinque o sei anni con indosso uno stravagante cappottino mezzo bianco e mezzo marrone. “Fallo fare a me”, stava dicendo la madre alla figlia che insisteva per spingere il carrello della spesa. La bambina aveva i capelli neri tagliati a spazzola che inasprivano il suo volto triangolare e mettevano in evidenza le sue orecchie a sventola.

“Ma come si fa a tagliare a una figlia i capelli così?” Per un attimo Marina si immaginò nel supermercato per mano a una piccoletta con i riccioli biondi, a boccoli, come quelli che aveva avuto lei da bambina, e gli stessi occhi celesti di suo marito.

In quel preciso istante si sentì chiamare: “Sbaglio o te sei Marina?” Una signora con un vistoso caschetto rosso mogano, vedendola incerta sul da farsi aggiunse: “Non mi riconosci? Sono Francesca, la collega di Roberto”.

“Scusami tanto ma con queste mascherine non è facile”.

“Come stai?”

“Bene. E te?”

 “Resisto; sono appena smontata dal turno e mi sono fermata a fare un po’ di spesa. Ho visto tuo marito al cambio, questo mese siamo di jolly, lo sai, non lavoriamo insieme”.

“Lo so. Stasera gli faccio trovare la pizza per cena, sono venuta a comprare il lievito”.

“La fai te in casa?”

 “Certo”.

“Brava, io invece in questo periodo non ho mai voglia di cucinare. Per fortuna prepara qualcosa il mio compagno”. Uno sprazzo di luce brillò nello sguardo dell’infermiera mentre pronunciava le ultime parole: era evidente che sotto la mascherina stava sorridendo.

“Non mi ricordavo che avesse due occhi castani così belli. Si vede che è innamorata”, pensò Marina provando una punta di invidia. Aveva sentito raccontare da Roberto che la collega, dopo un matrimonio sfortunato, aveva incontrato un uomo con cui conviveva da un anno. Sentì il bisogno impellente di cambiare argomento. “Ti dona parecchio questo colore di capelli, ti ricordavo più scura”.

“Sono costretta a tingerli perché sono imbiancata parecchio. Durante il lockdown mi sono arrangiata da sola, visto che i parrucchieri erano chiusi. E continuo a farlo perché sono soddisfatta del risultato. Che te ne pare?” Marina si avvicinò all’infermiera che chinò leggermente la testa. Vista da vicino la ricrescita dei capelli bianchi era evidente e il colore non era uniforme, ma sarebbe stato scortese farlo notare. “E’ un lavoro da professionisti”, rispose.

“Durante la prima ondata del covid i capelli bianchi mi sono aumentati tantissimo. Per via dello stress ovviamente”.

“Lo so bene quello che avete passato”, fece Marina avvertendo una stretta al petto. Col pensiero andò a quel maledetto mese di marzo quando era iniziata la pandemia. Anche a Roberto erano imbiancate le tempie. E parlava solo del covid. La loro conversazione di prima mattina davanti alle tazze della colazione era sempre la stessa. “Ci vai te a fare la spesa quando esci dal lavoro? Almeno non fai la fila come dipendente dell’ospedale”. “Avrei preferito non averlo questo vantaggio. Ieri abbiamo dovuto intubare un uomo al volo. Aveva ottant’anni è vero, ma portati benissimo”. Oppure: “Quel quarantenne arrivato due giorni fa al Pronto Soccorso aveva solo un tosse secca, ma dopo poche ore era in rianimazione”. Mai una buona notizia, proprio come al telegiornale.

“Stai attento, mi raccomando”, gli diceva Marina tutte le volte che usciva di casa accarezzandolo su una guancia. La sera poi lo sentiva rigirarsi nel letto fino a notte tarda; si fermava solo quando lei abbracciava il suo torace muscoloso, fissato com’era con l’attività fisica, tanto che aveva comprato i pesi per esercitarsi in casa: al contatto col corpo di sua moglie però restava immobile, senza ricambiare. Quando lei si allontanava, dopo qualche minuto riprendeva ad agitarsi. La mattina, appena alzato, aveva due occhiaie che gli arrivavano ai piedi dietro le lenti sottili degli occhiali e il suo viso era ancora più affilato, a differenza di Marina che con la didattica a distanza aveva messo su qualche chilo.  

“Che periodo terribile”, proseguì Francesca. L’infermiera pronunciò la frase sollevando le sopracciglia che formavano due archi perfetti. “Meno male che io ho un buon carattere. Tant’è che da quando sono diventata la capoturno tuo marito è più sereno”.

Ci fu un attimo di silenzio da parte di entrambe. “Grazie allo psichiatra che gli ha segnato gli antidepressivi”, pensò Marina ma non lo disse. A fine estate aveva dovuto sudare sette camice per convincere Roberto a farsi visitare da uno specialista. “Ho notato anch’io che al lavoro ci viene più volentieri”, fece.

“Sai io mi sono data parecchio da fare per creare un bel gruppo, perché è importante collaborare in un posto come il nostro”.

“Mi pare che tu ci sia proprio riuscita. Ora però continuo la mia spesa, sennò faccio tardi per rimettere il lievito”, tagliò corto Marina. Avrebbe dovuto proseguire a dritto per andare verso lo scaffale delle birre, ma l’infermiera la ostacolava per cui girò dall’altro lato. Fu allora che vide con la coda dell’occhio la bambina di poco prima che stava spingendo con forza il carrello nella sua direzione ma non fu abbastanza veloce da evitarla. Avvertì una fitta tremenda alla caviglia sinistra insieme ad un rumore metallico e alla voce di una donna che gridava: “Alice!”. Dal dolore si sentì svenire e si mise seduta per terra. La bambina lì vicino la stava fissando con uno sguardo inquietante.

“Mi scusi tanto, le ha fatto parecchio male?” chiese la madre che era sopraggiunta di corsa.

“Abbastanza”.

“Alice, perché hai preso il carrello e sei scappata via da sola? Hai visto quello che è successo alla signora?” La bambina sollevò lo sguardo verso la mamma e aggrottò le sopracciglia. Marina notò che i suoi grandi occhi scuri esprimevano rabbia anziché pentimento. Cercò di rialzarsi ma le riuscì a fatica perché appena appoggiava il piede in terra sentiva un gran dolore.

“Quanto mi dispiace” disse la mamma. “Forse dovrebbe sorvegliare meglio sua figlia” intervenne bruscamente l’infermiera. La bambina con un gesto di stizza spinse il suo carrello contro uno scaffale e alcune confezioni di shampoo caddero dal ripiano più basso. Poi guardò l’infermiera con aria di sfida.

“Alice via”, disse dolcemente la mamma cercando di rimettere a posto le bottiglie di plastica che erano cadute. “Ma non ti vergogni? Che peste che sei”, continuò Roberta chinandosi verso di lei e rimproverandola con la mano. La bambina prese dal suo cestino una scatola e scappò via con la madre dietro che la rincorreva.

“La mia tintura per capelli! Se ripassa da qua le allungo un paio di schiaffi”.

“Forse è l’ora di andare dal parrucchiere”, pensò Marina. Fece per allontanarsi ma la caviglia era troppo dolente e fu costretta a sfilarsi lo stivale per camminare: la gamba e il piede erano gonfi come due palloni.

“Potresti avere una frattura”.

“Speriamo di no”.

“Dovresti andare in ospedale a fare una radiografia, se vuoi ti accompagno”.

“Aspettiamo”. Marina provò di nuovo a camminare ma zoppicava. “Mi sa che hai ragione te”. A braccetto all’infermiera arrivò fino alle casse e poi salì in macchina con lei per farsi portare al Pronto Soccorso.

Durante il tragitto in auto con il piede immobile il dolore scomparve e Marina si pentì di essersi fatta dare un passaggio perché l’infermiera parlava in continuazione. “Certo oggi i genitori non sono più in grado di educare i figli. Lo vedo anche io quando portano i bambini in ospedale. La mamma non l’ha manco sgridata”.

“Io credo che non lo abbia fatto apposta, mi ha urtato per caso”.

 “Ma poi hai visto che occhi spiritati che aveva? Sembrava un gremlin con quelle orecchie a sventola”.

“Un che?”

“Un gremlin, un mostriciattolo malefico. Meglio non averli i figli, come nel mio caso, anziché averne uno così”.

“Cambierà crescendo”. Quando la macchina si fermò davanti all’ingresso dell’ospedale Marina tirò un sospiro di sollievo. “Siamo arrivate. Grazie di tutto”, disse alla svelta.

“Fammi sapere come va a finire. La potresti anche denunciare quella bambina”, continuò Francesca.

“Ti tengo aggiornata”. Marina posò il piede in terra e nonostante il fastidio allungò il passo. “Ora ho la certezza che sono i farmaci a far star meglio Roberto perché la sua collega è pesante come un macigno”, pensò alzando gli occhi al cielo prima che la porta a vetri dell’ospedale si aprisse.

In sala d’attesa c’erano poche persone e il triage era vuoto. Si mise seduta su una sedia e tirò fuori dalla borsa il cellulare per chiamare suo marito che era di turno, ma fu più forte la curiosità di vedere cosa fosse un gremlin. Dopo aver digitato la parola su google comparve una specie di animaletto peloso bianco e marrone con delle orecchie grandissime. Marina scosse la testa. Anche suo marito la pensava come la collega riguardo ai figli. “Non siamo più giovanissimi”, le diceva spesso “alla nostra età potremmo avere un bambino con dei problemi”. “Accetteremo quello che viene”, replicava lei.

Quando sentì dei rumori al triage alzò lo sguardo. Dietro il vetro vide comparire Roberto con indosso la sua divisa celeste, col volto rilassato: si stava rivolgendo a una collega, una biondina insignificante che salì con lui sopra la pedana. Si chinarono insieme a cercare qualcosa sopra il bancone e la collega sfiorò con dolcezza la sua spalla. Lo sprazzo di luce che comparve negli occhi chiari di lui al contatto con quella mano, uno sprazzo che sua moglie non vedeva da anni, fu più eloquente di mille parole. Marina si piegò istintivamente verso la borsa per non essere riconosciuta. Quando rialzò la testa loro due non c’erano più. Uscì dalla sala d’attesa stringendo i pugni per la rabbia. “Altro che psicofarmaci”, pensò. Il piede aveva ricominciato a farle male. Guardò verso la porta a vetri indecisa sul da farsi: in fondo poteva anche fingere di essere arrivata allora e fare finta di niente.

Dopo qualche giorno avrebbe raccontato alle sue amiche che aveva riflettuto a lungo per arrivare alla conclusione che non era fatta per perdonare; per questo aveva chiamato un taxi e si era fatta portare a casa dai suoi. Col passare degli anni avrebbe aggiunto al racconto che lei e Roberto avevano opinioni diverse su troppe cose e che se ne erano accorti durante il lockdown. La verità era che davanti al Pronto Soccorso era passata una macchina con la mamma che guidava e la bambina dietro, che si era girata verso di lei e le aveva puntato il dito contro. Marina aveva visto chiaramente i suoi grandi occhi iniettati di sangue che la fissavano e i suoi denti aguzzi, mentre sorrideva verso di lei in maniera beffarda. 


La fotografia accanto al titolo è di Roberto Cavallini

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