Nicola Fano
In memoria di un grande musicista

Anchise e Fausto Cigliano

Omaggio a Fausto Cigliano, morto ieri. Era un musicista e cantante eclettico e solitario, che ha cercato di aggiornare la tradizione della canzone napoletana. Dopo aver lambito l'eresia beat, ha recuperato la tradizione. Ma in modo nuovo e dolente

Perché ricordare, qui, oggi, Fausto Cigliano, il musicista napoletano morto ieri a ottantacinque anni? A chi può interessare il profilo di un interprete e chitarrista tutto sommato defilato, non amante del clamore? Semplicemente, è un pezzo di storia e la storia, benché non goda di soverchio rispetto, di questi tempi, è la spina dorsale del nostro presente e del nostro futuro.

A Napoli, dagli anni Cinquanta in poi – quando la canzone napoletana grazie alla tv assunse un profilo pop nazionale in forza del Festival della canzone napoletana vissuto e gestito come un omologo di quello di Sanremo – quel genere musicale che affonda le radici nell’opera buffa del Settecento si stabilizzò in tre scuole, sostanzialmente. Quella tradizionale era rappresentata da Sergio Bruni, cantante che, arricciando la bocca a cuore, sibilava le vocali come fossero spaghetti sottili. Le sue note erano prolungate e sussurrate al tempo stesso: era un filo diretto stabilito con la storia. E si sa che a Napoli la storia è sempre stata di casa: nel senso della trasformazione nella durata. Nel ceppo di una tradizione si innestano delle modificazioni che possono essere analizzate e valutate per capire come le cose siano cambiate: Sergio Bruni metteva di suo un tremolio della voce che era metà fioritura rossiniana, metà rovello intorno ai dittonghi inquieti della lingua napoletana.

Un’altra scuola, un po’ inespressa, all’epoca, e non troppo popolare, era quella di Roberto Murolo, che intendeva la tradizione in senso diverso, rispetto a Sergio Bruni: per lui cantare tradizione voleva dire cercare atmosfere rarefatte; annacquare il ritmo tipico della tammorra in un monotono pizzicato della chitarra. Diciamo la verità: nella voce e nell’arrangiamento di Roberto Murolo tutte le canzoni (napoletane) parevano uguali. Sia che fossero serenate melodiche sia che fossero macchiette comiche. Era come un’arcadia della canzone napoletana, Roberto Murolo: indispensabile e noioso.

La terza via, negli anni Sessanta e Settanta, era Fausto Cigliano. Ossia un occhio al ritmo (più jazz che tammorra) e uno al sentimento, alla melodia. Possibilmente con uno slittamento al realismo giovanilista fatto di amori e rabbia: Fausto Cigliano cercava di aggiornare la tradizione, sfiorando temi beat, nella musica e nei testi. Come si diceva allora, provava a stare al passo coi tempi. Io non so se su questa strada abbia incontrato la sua vera fortuna: no. Credo, piuttosto, che la sua arte sia diventata maestria dopo, quando è tornato a guardare alla tradizione, intonandola però con una voce opaca, “moderna” che altri non avevano. Non solo negli anni Sessanta, ma neanche dopo. Una voce che era un graffio, perché un graffio nei cuori e nella storia è la canzone napoletana. Altro che svolazzo melodico, altro che poesia fine a se stessa! La canzone napoletana, nei secoli, è rabbia e sconcerto.

Provate a riguardarvi Passione di John Turturro, film/dichiarazione d’amore del 2010. Fausto Cigliano suona e canta Catarì e Raiz canta Nun te scurda’. La prima è una canzone dolente e geniale: «Marzo nu poco piove/ e n’atru ppoco stracqua». Cavallo di battaglia di Sergio Bruni, per altro. Fausto Cigliano la suona alla chitarra e la canta sotto alle Sette opere della Misericordia di Caravaggio, opera manifesto del grande artista, un urlo di dolore su tela. Raiz canta il suo brano con Pietra Montecorvino in un celebre palazzo della Napoli barocca e decaduta. Le due voci (Cigliano e Raiz) sono analogamente gutturali, irregolari, ma quella di Fausto Cigliano è dolce e secolare: sa di storia, di tempo lontano e inafferrabile; mentre quella di Raiz (come anche quella terribile di Piera Montecorvino) è conflittuale, uno sfregio del presente. Nella prima c’è dedizione al passato, nella seconda c’è rabbia per l’assenza di passato. Ma senza Fausto Cigliano, Raiz non solo non ci sarebbe stato, ma nemmeno avrebbero avuto senso i suoi Almamegretta. Questo patrimonio è morto, ieri: portando sulle spalle Fausto Cigliano, altri hanno costruito il futuro, come Enea ha edificato il domani portando sulle spalle Anchise. È Anchise, quello che piangiamo in Fausto Cigliano, quello che dovete portare sulle spalle per costruire un nuovo mondo.

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