Raoul Precht
Periscopio (globale)

La Sicilia e l’inferno

A dieci anni dalla scomparsa, ritratto dello scrittore che ha cercato le parole della contemporaneità trovandole nello spazio temporale, culturale e mitico della sua terra, la Sicilia. Anche sulla scia di Giovanni Verga

Ne L’olivo e l’olivastro, pubblicato nel 1994, Vincenzo Consolo dedicava ben tre capitoli del libro, dal settimo al nono, a uno dei suoi maestri, Giovanni Verga. Una sintesi estremamente personale e suggestiva dei Malavoglia e di Mastro don Gesualdo s’intreccia, in un testo che è anche la registrazione di un difficile ritorno in Sicilia dello scrittore emigrato, alla visita nella casa natale di Verga e alla rievocazione delle celebrazioni, anzi delle “onoranze”, a lui dedicate nel 1920, che videro giungere appositamente a Catania Luigi Pirandello, l’unico degli ospiti osannanti alla cui presenza il gran vegliardo, come lo chiama affettuosamente Consolo, tenesse davvero. La sequenza, che ricorda certe pagine di Brancati, è pregnante e divertente, uno spaccato di vita provinciale in cui anche un avvenimento come l’omaggio a un grande scrittore per il suo ottantesimo compleanno diventa occasione per egoismi e tentativi di profilarsi e di emergere dalla massa, di mietere successi. Così, il già popolarissimo Angelo Musco, chiamato a mettere in scena un dramma verghiano, ne approfitta per rappresentare la sera precedente una commedia in dialetto scritta dalla sua amante. Così, sindaco, notabili e intellighenzia locali danno vita a una specie di santa alleanza per superare la ritrosia e il crescente sdegno di Verga, offeso da tutto il chiasso e dalla retorica messa in campo. A parte D’Annunzio, impegnato nell’eroica avventura di Fiume, di cui peraltro non s’avverte troppo la mancanza, alla celebrazione in teatro c’erano tutti, scrive Consolo, salvo lo stesso Verga, che si fece rappresentare da Federico De Roberto; volle tuttavia Verga conversare poi privatamente, a margine dei festeggiamenti, almeno con Pirandello, che ammirava, e quest’incontro rappresenta una delle più belle pagine del libro di Consolo, un passo inaspettatamente tenero e nostalgico, che mi piace ricordare in occasione del centenario della morte di Giovanni Verga, avvenuta il 27 gennaio 1922.

Vincenzo Consolo è uno di quegli autori di cui si sente la mancanza, molti dei quali – penso a Sciascia, Bufalino, D’Arrigo, Bonaviri – sono (e non dev’essere un caso) siciliani. Anche Consolo l’abbiamo perso in questo mese di gennaio, per la precisione il 21 gennaio di dieci anni fa, e va sottolineato come in questo decennio trascorso dalla sua morte i libri da lui pubblicati non abbiano perso nulla del loro smalto né della loro ragion d’essere, il che per uno scrittore non è mai poco.

Con un lessico ricercato e ricchissimo, che testimonia di una consapevolezza gaddiana del primato del linguaggio e che ingloba in un originale impasto linguistico l’italiano ottocentesco (compreso, ove necessario, quello burocratico), termini dialettali, forme arcaiche, preziosismi, prestiti da lingue straniere, eccetera, Consolo si discosta dagli scrittori della generazione precedente alla sua – primo fra tutti l’amato Sciascia – per un apparente minor controllo del materiale, una maggiore visceralità. Il distacco illuministico lascia il posto a un coinvolgimento emotivo difficile da dissimulare, rafforzato da una maggiore ansia espressiva e da una costante attenzione agli aspetti ritmici e prosodici, essenzialmente poetici, dell’andamento narrativo.

A Consolo, laureato da Cesare Segre “maggiore scrittore italiano della sua generazione”, non sono certo mancati in vita i riconoscimenti, dal Grinzane Cavour allo Strega, ma la sua ricerca, letteraria, sociopolitica, perfino antropologica, si è svolta su un piano che questi riconoscimenti ignorava e trascendeva, come se l’essenziale dopotutto non fosse nell’accettazione, da parte di critica e pubblico, dei suoi libri, ma nella loro strenua coerenza interna, che dalla dicotomia successo/insuccesso poteva tranquillamente prescindere. Del resto, Consolo ha sconvolto proprio la forma che in narrativa dà solitamente il maggiore successo e la maggiore visibilità al suo autore, cioè il romanzo. I “romanzi” da lui pubblicati sono non solo tutti diversi fra loro, ma soprattutto capricciosamente diversi da qualunque canone si possa immaginare. Dalla Ferita dell’aprile, del 1963, passando per  Il sorriso dell’ignoto marinaio, del 1976, all’ultimo e per lui (nella sua disperazione) definitivo Lo Spasimo di Palermo, del 1998, Consolo scardina le convenzioni romanzesche, introducendo per esempio già nel Sorriso, sia pur ben staccati dal corpus centrale e destinati a singolari appendici, documenti originali e fittizi, diari di garibaldini, memorie storiche, lettere di notabili e trattati di malacologia, come a voler sottolineare come quelle stesse convenzioni cui il romanzo si attiene non siano più in grado di dar conto di una realtà sfaccettata e multidimensionale e debbano essere annullate e aperte dal loro interno.

Per quanto riguarda il Sorriso, molto si è scritto della sua funzione di ribaltamento di una costellazione mitologica che si deve prima allo stesso Verga a al suo ambizioso ciclo dei Vinti, e poi al Gattopardo di Tomasi di Lampedusa e in particolare alla creazione in questo romanzo della figura del Principe di Salina. Come quest’ultimo, anche il Barone di Mandralisca proposto da Consolo, malgrado il titolo nobiliare ironicamente più modesto, fa parte dell’aristocrazia terriera ed è uno scienziato dilettante (astronomo il primo, malacologo il secondo); solo che il Barone non condivide affatto l’idea, sottesa a tutto il Gattopardo, di un siciliano molle, addormentato, intontito da un clima troppo favorevole, convinto della propria perfezione e in definitiva soggetto unicamente a pulsioni di morte che lo porterebbero a una totale inattività. Concezione deterministica, immutabile, derivata dalle disgrazie incessanti dei personaggi verghiani, che porta anche a quel trasformismo ben sintetizzato dalla famosa formula enunciata da Tancredi, il nipote del Principe: “Se vogliamo che tutto rimanga come è, bisogna che tutto cambi.” Da questa concezione il Barone (e con lui Consolo) si discosta con decisione. La questione che il Barone di Mandralisca si trova a dover affrontare è semmai il dolente passaggio dall’entusiasmo illuministico per l’arrivo dei garibaldini che tutto, finalmente, cambieranno, restituendo in primis le terre ai contadini, alla constatazione che saranno invece gli stessi rivoluzionari a soffocare nel sangue le rivolte contadine, passando però alla storia come una forza di cambiamento anziché di restaurazione, perché la storia è scritta sempre e solo da chi vince. Perché la storia, comunque la si metta, è un’impostura, e per Consolo una delle responsabilità dell’intellettuale, molto semplicemente, è di denunciarla, poiché altrimenti se ne diventa complici. La forma a spirale della chiocciola, eletta metafora centrale del libro, simboleggia appunto il tornare e ripetersi dell’ingiustizia, la trappola labirintica in cui i vinti sono ancora una volta rinchiusi. L’altra responsabilità, che da tutto ciò deriva e che è anche più difficile da onorare, è quella di dare finalmente un linguaggio a coloro i quali ne sono stati privati, indicando la concezione progressista della storia per quello che è, uno sterile mito, e individuando nella passione civile l’unico obbligo davvero inderogabile.

La vicenda del Barone di Mandralisca prelude a quella sparizione del mondo contadino denunciata negli stessi anni anche da Pasolini, e all’illusione di poter trovare un modello di sviluppo accettabile nell’industrializzazione forzata, in quelli che Consolo chiamerà i “pozzi mefitici di Augusta, di Priolo, di Gela”. Questo tipo di sviluppo, che non corrisponde ad alcun progresso – e si ricordino anzi le polemiche pagine pasoliniane sulla differenza netta, se non sull’opposizione, fra sviluppo e progresso –, è al centro dell’opera di Consolo, che peraltro non prova alcun interesse per le dinamiche psicologiche e personali del narratore e dei suoi personaggi, al punto da far iniziare L’olivo e l’olivastro, opera di cognizione e ricognizione, con le parole “Ora non può narrare”. Non può narrare perché è venuto per lui, scrittore distante ed emigrato, il momento di affrontare non una microstoria narrativa, un palpito privato, ma la macrostoria, per quanto possibile non univoca, ma polifonica, della sua isola.

Seguirà nel 1992 Nottetempo, casa per casa, romanzo storico sui generis, già pervaso da una cupezza che lascia trasparire il declino di quelle flebili speranze di riscatto che il Sorriso ancora conteneva. Un declino che peraltro serpeggiava già nel precedente racconto-favola teatrale Lunaria, del 1985, e nella figura centrale del suo malinconico viceré, il quale, dopo averla sognata, assiste alla caduta della luna e alla disgregazione dell’intera società che lui stesso dovrebbe guidare. Nel mettere in scena, in Nottetempo, un personaggio alquanto incongruo nella Sicilia degli anni Venti qual è il mago inglese Aleister Crowley, Consolo ne fa un simbolo di quel decadentismo europeo che avrebbe portato alle aberrazioni delle due guerre mondiali. Crowley, il cultore di riti esoterici, il dandy, il santone, il provocatore, sempre accompagnato da donne straniere, alte, bionde e seminude, occupa quasi militarmente, con la prepotenza della follia, un mondo ancora contadino e arcaico, contribuendo all’accelerazione di un processo di disgregazione familiare e sociale forse già in corso (sono pur sempre gli anni dell’avvento del fascismo), ma che l’irruzione inopinata del moderno complica ulteriormente. Ancora una volta il compito dello scrittore che non voglia ritirarsi nella proverbiale torre d’avorio sarà quello, come Consolo fa dire al protagonista Petro Marano nell’ultimissima frase del romanzo, di dare “ragione, nome a tutto quel dolore.”

Ne L’olivo e l’olivastro, del 1994, come in molti altri testi sparsi, emerge la particolarità del suo rapporto intrinsecamente ambivalente con la Sicilia; qui Consolo reagisce con passione, ferocia e insistenza soprattutto alle assenze, a tutto quanto, nel corso delle sue visite, del suo nostos omerico, non riesce più a trovare, denunciando al tempo stesso quanto invece gli si manifesta anche inaspettatamente davanti, nei termini di una trasformazione antropologica quasi sempre per sottrazione e in negativo. Il libro è in fondo, pur con tutte le sue reminiscenze e i suoi richiami letterari – dal citato Verga, al quale lo accomuna anche l’esilio o diaspora a Milano, a Maupassant, da Platen a Caravaggio –, un diario di viaggio, la registrazione minuziosa di una ricerca tesa a ripristinare e restaurare la vita e la memoria, sempre più minacciate da un’ingiuriosa modernità, dei luoghi dell’infanzia e della giovinezza, a sottrarli al degrado cui l’incuria e la criminalità sembrano averli condannati. Incuria e criminalità che non si ripercuotono solo sul paesaggio naturale, ma anche, per così dire, su quello umano, perché mutano appunto anche l’uomo e la natura stessa dei suoi rapporti con gli altri.

Resta da ricordare il testo forse più sofferto di Consolo, Lo Spasimo di Palermo, del 1998, scritto come reazione indignata alle stragi che provocarono l’assassinio di Falcone e Borsellino e la capitolazione dello Stato di fonte alle mafie. Un testo che pone Consolo di fronte all’inedita e ardua esigenza di parlare del mondo contemporaneo, di trovare un linguaggio che si addica ai nostri giorni. Le due generazioni che compaiono nel romanzo, rappresentate da Gioacchino Martinez e dal figlio Mauro sono entrambe perdenti. Il primo, impegnato nell’ennesimo nostos spaziale e temporale (da Parigi a Palermo e dall’infanzia alla piena maturità), è un letterato avulso dalla realtà politico-sociale, che anzi nella cultura cerca di trovare una sua periclitante pacificazione; il secondo si lascia invece irretire dalle sirene del terrorismo e della lotta armata. L’atteggiamento di entrambi nei confronti del mondo esterno è del tutto inconcludente e non porta alla creazione di una nuova società, più giusta e meno violenta. Il finale, con il materializzarsi dell’ennesimo attentato contro un giudice, dà la misura della sconsolata disperazione di uno scrittore di fronte a un mondo infernale, in cui spegnere vite umane sembra essere divenuto normale per un’intera generazione di giovani senza prospettive, che uno Stato diverso e una società meno corrotta dovrebbero almeno tentare di recuperare alla vita.

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