Danilo Maestosi
A Palazzo Merulana di Roma

La pittura, bellezza!

è una mostra da non perdere quella che mette uno accanto all'altro tre outsider della pittura: Luigi Boille, Lamberto Pignotti e Bruno Aller. Nelle loro opere c'è la radicale difesa dell'arte, dei suoi principi, della sua essenza. Al di là delle convulsioni delle avanguardie

Le regole e il colpo d’occhio sono garanzie da mostra doc. Prestigioso, ben gestito e ben frequentato il museo romano, ai confini dell’Equilino, che la ospita: Palazzo Merulana, scrigno di una piccola ma straordinaria collezione privata del primo e secondo Novecento, restaurato e aperto al pubblico da qualche anno. Bello e luminoso lo spazio che l’accoglie: la grande sala al quarto piano, in genere destinata ad un programma di incontri, presentazioni, dibattiti, inevitabilmente sfoltito dalle misure anticovid. Intrigante già a prima vista il contrasto tra le opere allineate alle pareti con una dosata alternanza che ne accentua la diversità di linguaggi e di stile. Spiazzante ma non scritto in gergo il testo d’introduzione del curatore, Stefano Gallo, un docente universitario, appeso all’ingresso.

Ma sono altri dettagli a garantire a questa mostra, in cartellone fino a tutto marzo, un sapore speciale, da evento da non mancare. Innanzitutto il titolo: Tre outsider. Avverte il visitatore non addetto ai lavori, con inusuale sincerità, che non dovrà misurarsi con il già visto, il gradimento scontato d’alta classifica o da social supergettonati, della fama certificata, ma che dovrà esplorare la vasta terra di mezzo di disattenzione e silenzi, dove il sistema capriccioso e superficiale del contemporaneo confina artisti ancora capaci di sorprese ed emozioni, che magari hanno fatto scuola e tendenza o avrebbero potuto farla ma sono finiti fuori pista , dove la luce dei riflettori non si accende o arriva a stento.

Occhio subito dopo ai nomi in copertina. Partendo dagli ultimi due, una carriera ricca di attestati e presenze internazionali, che parte da troppo lontano, (entrambi sono nati nel 1926, nell’anteguerra e cavalcando l’onda di voglie diverse di dire e cambiare il mondo, si sono fatti avanti oltre mezzo secolo fa) per non essere catalogati dai cacciatori di attualità ad ogni costo in uno ieri che promette poche novità. E solo ripescaggi di nicchia. Luigi Boille (qui sopra), romano, scomparso cinque anni fa, è un pioniere dell’informale, attratto dalla seduzione del segno, che a poco a poco è approdato verso una cifra espressiva sempre più concisa e rarefatta. E Lamberto Pignotti (accanto al titolo), ultranovantenne ancora in attività, fiorentino trapiantato a Roma, una vena per miscelare a poesia, la scrittura e i linguaggi stereotipati delle comunicazioni di massa, sconfinata nel campo senza paletti delle arti visive, sul petto la medaglia di fondatore e militante del gruppo d’avanguardia 63, al fianco di Balestrini, Pagliarani, Guglielmi, Umberto Eco.

Infine il terzo nome: Bruno Aller, romano, sessant’anni compiuti da poco, una fede incrollabile nella pittura, uno spirito da artista e poeta anarchico che predilige tempesta, un’attenzione alla qualità e alla ricerca di verità attraverso altri linguaggi, altre esperienze, maturata nella creazione e nella conduzione di una piccola galleria, Arti e pensieri, alle spalle del Colosseo, che da 20 anni offre ascolto, presidio, occasioni, a una titolata tribù di colleghi di ogni età, sciolti come lui da vincoli di protezione, mercato e convenienza.

È lui il progettista dichiarato e il regista occulto di questa mostra. Che rispecchia molti aspetti, pregi e difetti, del suo carattere e della sua formazione professionale. Come la lunga attività di scenografo: teatrale la disposizione dei quadri come quinte a sipario aperto, l’alternanza delle voci dei tre attori in scena, che ora irrompono e reclamano il proscenio in assoli ora si inseguono e fanno coro. Come l’abitudine a privilegiare come strumento di comprensione i tragitti della memoria: a ognuno dei colleghi più anziani e a sé stesso riserva il montaggio di una piccola retrospettiva, che consente di valutare il suo punto di partenza e il suo punto d’arrivo.

Come il gusto per la simmetria che è il tratto inconfondibile del suo patrimonio e delle sue prove di pittore: le opere di piccolo formato e gli schizzi di studio affiancati insieme nel corridoio d’ingresso, quelle più grandi e vistose a tappezzare e arredare la sala più grande, per non alterare le gerarchie dello sguardo. Come il piacere di sfidare al giudizio ma lasciar libero il visitatore che caratterizza da sempre le tante mostre di gruppo confezionate della galleria Arte e pensieri: qui l’invito è di rintracciare i fili invisibili che collegano i tre artisti a confronto, in apparenza così distanti tra loro. E senza appesantire più di tanto la posta della scommessa, che è alta e ambiziosa, perché ribalta molte convinzioni correnti. E a suo modo fondata su un paradosso: restituire all’arte, a chi la pratica con convinzione, e alle opere in cui prende corpo l’aura di unicità che le cicliche profezie di autodistruzione delle avanguardie hanno dissolto e allo stesso tempo dimostrare che a tener vivo il fuoco d’attualità della trasgressione non sono i salti di discontinuità che i vari movimenti ostentano come bandiere ma la trama di connessione degli scambi , degli slittamenti , del reciproco confronto con cui i singoli artisti alimentano la propria ricerca e la rappresentazione del proprio tempo.

Insomma, un gioco molto serio, per chi ha scelto l’arte come mestiere e deve camparci. Ma pur sempre un gioco. Che non trascura il piacere e il sorriso nel pesare sulla bilancia differenze e affinità che questa mostra ci spinge a individuare.

A me, ad esempio, è venuto spontaneo assegnare a questi tre outsider un’identità scanzonata da dei dell’Olimpo. A Boille, per quella frenesia di segni che si accavallano come in una danza orfica, quella di Dioniso. A Pignotti per quel continuo mutar prospettiva che impone alle immagini banali pescate nell’universo patinato della pubblicità, dirottandone il senso e il messaggio con l’innesto di parole e colori, attribuire la perfidia di un cultore di inganni e tendenziose notizie come Mercurio. Ad Aller per quell’ancoraggio strutturale e quei traguardi di estasi che impone e si impone nel modellare lo spazio, il rigore declamatorio di Apollo.

Ma subito dopo ecco la tentazione di sparigliare, quadro dopo quadro, le parti. Scoprendo la leggerezza mercuriale e la logica apollinea che ha pilotato a poco a poco Boille dal caos apparente delle sue pennellate sovrapposte verso la rarefazione, la concisione enigmatica di un segno identitario in cui trovare rifugio e prigione. Balza agli occhi lo scarto che separa la cupa sporcizia materica delle sue labirintiche tele anni 50 che in Francia gli procurarono una prima forte notorietà, da quelle piccole virgole nere su uno sfondo monocromo con cui, vicino alla soglia dei novant’anni, rende omaggio al ricordo e alla figura Enrico Berlinguer, riproducendone con abilità di falsario la firma e poi sfrangiandone in echi raggrumati la presenza che il mutare dei tempi va affievolendo, come succede all’esempio di quel leader, timido e brusco.

Una contaminazione di qualità luminose che rintraccio anche nei divertenti assemblaggi più recenti di Pignotti: ecco l’ebrezza sbilenca ed alcoolica dei quattro colori sgocciolanti con cui incide in quattro lingue diverse la parola mondo sulla fotocopia di un rebus, allargando, con lucidità apollinea di una vista spinta oltre le apparenze, l’orizzonte della soluzione, ecco più in la il ritratto in tre dimensioni del fascino femminile incarnato da un manichino , pettoruto come una Venere e tappezzato di fotomontaggi e scritte allusive.

E infine Bruno Aller (accanto). Il più giovane di questo convito di gruppo. Al primo colpo d’occhio il più inscalfibile da quel travaso di empatie sotterranee che scorre tra gli altri condomini d’Olimpo. Per la pulizia estrema e l’avarizia cromatica che governa l’intero arco della sua produzione. Accentuata dai lavori scelti per raccontarsi, Tutti dedicati alla musica classica, ai dischi che sente di più e al modo con cui da loro corpo in pittura Pochi colori per catalogare e imprigionare in una sola occhiata il ritratto del compositore e dell’esecutore preferito: tra il blu e il viola il suo Mahler, il rosso e il bianco il suo Bach, L’attenzione concentrata soprattutto sull’impianto come se invece della liquidità del suono, preferisse la scrittura geometrica dello spartito.

Eccolo invece smentire anche lui questa parvenza di seriosa ossessione formale ed esibirsi come una baccante nella sbronza liberatoria di un rito giocoso, innalzando nel fondo della galleria un pannello rosso, con al centro due facce ovali rotanti. Un esercizio di bravura, da prestigiatore del pennello, nel nome Da una parte Un ritratto a tinte smorte del poeta in versione cubista. Dall’altra, girando un pernio, il suo inconfondibile nasone e la testa coperta dal cappuccio, il facsimile di un’icona d’epoca. Furti, influenze e citazioni d’autore. Le arti visive ci distillano da sempre la loro linfa vitale. Non c’è buio in pittura in cui non riaffiori, magari come negazione, sberleffo, contrazione minimalista, il fantasma di Caravaggio, paesaggio in cui non si aggirino le ombre di Monet, non volino i corvi di Van Gogh, non incombano i volumi di Cezanne, il ricamo di piani di Picasso, i sussulti d’inconscio di Kandinskij, la furia di Pollock. E così via di modello in modello.

Sì, succede lo stesso con le opere e i salti in avanti delle avanguardie. Per questo rischia di perdere di vista il bersaglio la critica che riscrive ed aggiorna la storia dell’arte moderna e contemporanea solo come un transito da frattura a frattura.

Non è forse questa la presa d posizione che questa mostra ci disegna davanti? La risposta ai perché Bruno Aller abbia chiamato qui al suo fianco, rivisitato da amico e curatore, e tratto vantaggio da due maestri d’altra generazione e altre ribellioni.

È la pittura, bellezza. O meglio è la bellezza della pittura. Che nelle sue imprese più emozionanti e sentite si dipinge da sola, inseguendo il tempo che le fugge, ci fugge davanti. Come nello splendido omaggio a Debussy, ultimo campione della sua produzione, che Aller ha voluto inserire a fine percorso. Un tripudio di colori pastello, gialli, verdi, celesti, di liberi intrecci di segni, che mai avevamo visto nei suoi quadri precedenti. E che forse hanno stupito lui, prima ancora che noi.

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