Lidia Lombardi
Nella Giornata della memoria

Leggere l’Olocausto

C'è sempre più bisogno di "capire" la Shoah. Due libri ne descrivono aspetti nuovi e inquietanti. Robert Waisman (alias Romek Wajsman) racconta la sua esperienza di bambino nel lager. La storica Lucy Adlington, invece, rievoca le recluse costrette a cucire abiti per le mogli delle Ss

«Sei ebreo, devi morire al forno». Lo hanno urlato due ragazze quindicenni a uno che di anni ne ha tredici e che stava giocando in un parco pubblico di Campiglia Marittima. È successo domenica scorsa, ed è di quelle notizie “impossibili” eppure reali. Che ne sanno, quelle adolescenti, dei crematori nazisti? Che cosa hanno visto, letto, sentito? Discorsi dei grandi oppure uno sbeffeggiamento sulle pagine della coetanea Anna Frank?

Sta di fatto che l’invito a “non dimenticare” l’Olocausto, a non banalizzarlo come il male evocato da Hannah Arendt, a non farne una scusa per bulli picchiatori ignoranti della Storia, è più che necessario. È necessaria la Giornata della Memoria, che cade ogni 27 gennaio, il giorno del 1945 nel quale l’Armata Russa liberò il campo di concentramento di Auschwitz. E non paiano strumentali le decine di libri che debuttano in libreria nell’occasione. Certo, ci puntano gli editori pensando al loro mercato. Però leggere storie sullo sfondo dei lager o della coscienza dei sopravvissuti potrebbe essere la condanna esemplare per quelle due ragazzine della provincia livornese.

Per esempio, mettete sul loro comodino I ragazzi di Buchenwald (Rizzoli, 246 pagine, 18 euro). È il racconto che Robert Waisman (Romek Wajsman in realtà, il nome di quando nacque, nella sua Polonia) ha restituito sulla sua straordinaria vicenda, che s’innesta su un particolare gruppo di scampati ai forni crematori: mille bambini stipati nelle baracche nel lager di Buchenwald, tirati fuori dagli americani l’11 aprile 1945. Nessuno stava accanto a qualcuno della propria famiglia, il più piccolo si nascondeva dietro una catasta di cadaveri. Seppero poi di essere orfani. Avevano fra i tredici e i diciassette anni, ma per una trentina l’età si abbassava sotto i dodici.

Waisman, che ora ha novantuno anni e che emigrò in Canada nel 1948, decise di cominciare a parlare pubblicamente di quel passato nel 1984, di fronte all’ennesima negazione dell’Olocausto da parte di un insegnante canadese. Ma la narrazione di questo libro – una lunga testimonianza raccolta da Susan McClelland, scrittrice e giornalista statunitense – risale a due anni fa, sicché si scusa, il protagonista, se confonde qualche data, però la sostanza storica c’è tutta. C’è «il processo che ha portato dei ragazzini che avevano perduto ogni cosa a trovare di nuovo un senso». Ed è vicenda che non squarcia solo le sofferenze di Romek-Robert, ma dice di un’istituzione non troppo conosciuta nell’epopea dei martirizzati dal nazismo: l’Oeuvre de Secours aux Enfants (OSE), organizzazione a tutela dei bambini orfani ebrei sorta a Ginevra. Waisman, che quando fu liberato aveva quattordici anni, fu portato insieme ad altri quattrocento di Buchenwald – tra cui i due Nobel Elie Wiesel e Imre Kertész – in Normandia, ad Ecouis, dove in un collegio dismesso era stato allestito il ricovero per i giovani sopravvissuti, grazie anche all’impegno di Albert Einstein. È durante il viaggio in treno verso quella meta che s’avvia l’azione del libro, un plot con l’andatura del romanzo, che alterna flashback e flussi di pensieri ai fatti avvenuti dopo la “resurrezione”. Una resurrezione che non assume toni consolatori. A partire dalla diffidenza da parte dei francesi verso quei ragazzi visti oltre il finestrino dei vagoni o nei brevi momenti di discesa dal treno. Perché gli Alleati avevano fatto levare loro il lurido pigiama a righe da deportati sostituendolo con i primi abiti a portata di mano: le uniformi della gioventù hitleriana. Così alcuni, per uscire dall’equivoco, usando la vernice bianca avuta da un contadino scrissero sulla fiancata del treno, in francese, in inglese e in yiddish «Siamo i sopravvissuti di Buchenwald. Dove sono i nostri genitori?».

L’antefatto è la prima infanzia di Romek, a Skarzysko-Kamienna, paesone cresciuto attorno alla stazione ferroviaria, a metà della linea tra Varsavia e Lodz e diventato centro di attrazione per la sua industria di munizioni. Anni felici nella casa di legno attigua al bosco che il padre merciaio e sarto aveva acquistato per la numerosa famiglia, sei figli, canti, feste e cene con challah, polpette di pesce, stufato di pollo. Finisce tutto nel ’41, quando i Wejsman sono obbligati a traslocare nel ghetto. Poi i nazisti schiavizzano Romek costringendolo a lavorare nella requisita fabbrica di munizioni. Infine, il filo reciso con la famiglia. Il padre lo fa scappare dopo aver corrotto una guardia nazista in cambio della fede d’oro della moglie, il ragazzetto vaga nei boschi e viene cooptato da una squadriglia di partigiani polacchi. Uno si diverte obbligandolo a saltare, come ballando, attorno ai proiettili che gli spara tra i piedi. Saranno i capi partigiani a proteggere i ragazzini di Buchenwald. Ma anche a gestire da kapò la vita nel lager. Come Gustav Schiller, detto il Boia, «il capo della squadra punizioni». Lui e Otto, un comunista ucraino, «facevano pressioni sui nuovi arrivati perché denunciassero chi si era comportato male al ghetto o era in combutta con i nazisti».

Odio e favoritismi, nelle baracche del lager. I ragazzi di Buchenwald se li portano appresso anche nel collegio di Ecouis. Polacchi contro ungheresi, romeni, tedeschi, russi. «Era la guerra tra madrepatrie. Ebrei contro ebrei. Odio contro odio». Ragazzi distopici, obbedienti soltanto alla pancia: come nella battaglia in refettorio dopo colazione e dopo aver fatto razzia del cibo, ingurgitato e stipato nelle tasche. Poi via, tavoli ribaltati e stoviglie lanciate come proiettili contro i “nemici”. Sarà difficile la rieducazione, il ritorno alla normalità, ci vorrà l’opera di psicologi e medici. Non tutti furono davvero salvati. «Provare a essere felici – chiosa Waisman – era il modo con il quale noi, ragazzi di Buchenwald, potevamo sancire la nostra vittoria contro il nazismo».

Un piccolo gruppo, tutto di giovani donne, è protagonista di un altro titolo Rizzoli. Sono Le sarte di Auschwitz (429 pagine, 19 euro) delle quali narra Lucy Adlington, storica della moda e romanziera inglese, qui al suo primo libro tradotto in Italia. Venticinque le protagoniste, scampate alla soluzione finale grazie al talento di usare forbici e ago in un agghiacciante atelier che dietro al filo spinato confezionava abiti haute couture per le mogli dei paramilitari noti come SS. Si chiamavano Irene, Renée, Bracha, Katka, Hunya, Mimi, Manci, Marta,Olga, Alida, Marilou, Lulu, Baba, Boriska… Ebree dell’Europa orientale, per lo più slovacche, tranne due francesi, comuniste, prigioniere politiche.

Adlington ha deciso di scavare su di loro mentre si documentava sui legami tra il Terzo Reich e il settore della moda: «La prima volta che vidi menzionato il Laboratorio di Alta Sartoria di Auschwitz fu come ricevere una pugnalata». Poi ha cominciato a esaminare carte, giornali, studi specialistici. Fino a rintracciare l’ultima sopravvissuta della sartoria, la signora Kohut, corti capelli bianchi, residente in California, «in una modesta casa sulle colline di San Francisco». Ne è nata una lunga intervista che è un po’ la spina dorsale del libro. Le giovani arrivarono nel lager con i primi trasporti femminili del ’42. Lavoravano in un seminterrato dell’edificio che ospitava gli uffici amministrativi delle SS. La loro principale cliente era la donna che aveva ideato l’atelier, Hedwig Hoss, la moglie del comandante. Realizzare modelli ripresi dalle riviste e talvolta da loro rielaborati le salvarono dalla camera a gas. Ma rischiavano ogni giorno: come quella volta che una bruciò con il ferro da stiro il pannello centrale di un vestito, la mattina prima della prova.

Dovettero inventarsi un inserto pieghettato per salvare la pelle. I legami di amicizia e talvolta di parentela – due erano sorelle – le aiutarono a sopportare le persecuzioni e addirittura diedero loro l’ardire di partecipare alla resistenza interna del lager. Ma c’era anche un altro aspetto – squisitamente psicologico – che dava a tutte “potere” e costituiva allo stesso tempo un pericolo. «Il rapporto tra sarta e cliente è particolarmente intimo – spiega l’autrice –. Quando prende le misure con il metro a nastro, la sarta ha di fronte a sé la cliente seminuda: conosce tutti i difetti delle sue committenti. Qui tuttavia c’erano delle prigioniere ebree che posavano le loro mani su donne dell’élite nazista, puntavano con gli spilli gli orli, controllavano le pince e lisciavano le cuciture. Da un momento all’altro la cliente avrebbe potuto risentirsi. E il risultato sarebbe stato una punizione o l’allontanamento d quel posto protetto».

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