Leopoldo Carlesimo
Una storia sulle trasformazioni di Roma

La lavanderia

«Le tre sorelle invecchiarono e anni dopo la lavanderia fu rilevata da una famiglia di cingalesi. La grigia e la rossa sparirono. Ma la bruna, la più giovane, tornò. Era ancora in età da lavoro, lei, e non aveva perso il suo aspetto da monaca»

Da quando abito nel quartiere, c’è sempre stata una lavanderia in Largo Brancaccio. Affaccia sul breve tratto di raccordo che da Colle Oppio biforca su Via Lanza, scendendo verso la Suburra e i Fori.

Vent’anni fa era tenuta da tre sorelle. Tre donne mature, tra i quaranta e i cinquanta. La più anziana – capelli grigi tenuti su con le forcine, occhiali sottili calati in punta di naso, uno scialle perennemente sulle le spalle, estate e inverno – gestiva la cassa, prendeva gli ordini, raccoglieva e rendeva la merce. Teneva a posto conti e guardaroba ed era un po’ l’amministratrice della ditta. Faceva anche piccoli lavori di sartoria – l’orlo a un paio di pantaloni, un bottone, rammendi – ed era una gran bevitrice di tè. Dacché la ricordo, l’ho sempre vista con una tazza di tè sul banco, per anni e anni. Se lo faceva portare dal bar dirimpetto e ogni volta che il bar cambiava garzone, lei impartiva al nuovo le sue istruzioni: ci voleva del limone con la scorza spessa tagliato a fettine sottili sottili, una certa teiera bassa, ovale e col becco a collo di cigno, la sua particolare marca di tè cinese, la zuccheriera col cucchiaino a ventaglio e tazze e piattini di ceramica fine che il bar teneva in serbo apposta per lei. Gliele avrò sentite ripetere decine di volte, le conoscevo a memoria anch’io. Una teiera le durava ore e il ragazzotto faceva tre-quattro viaggi al giorno bar-lavanderia e ritorno.

La mezzana era la più vivace. Aveva due occhi neri lampeggianti sotto una chioma rosso fuoco, e quanto la maggiore era precisa e ordinata, tanto lei era irruente e impulsiva. E’ l’unica di cui seppi il nome: si chiamava Erminia. Sotto il naso lentigginoso, sosteneva con cipiglio una marcata ombreggiatura di baffi. Era addetta alle lavatrici, infornava e sfornava enormi ceste di panni, ceste variopinte e dai colori sgargianti quasi quanto gli abiti che portava lei. Indossava bluse molto scollate e gonne leggere, a fiori, pericolosamente corte, un palmo buono sopra al ginocchio. Solo a vederla, chiunque si sarebbe messo in guardia con lei. Per gli uomini del quartiere era una presenza con cui fare i conti. Una sbirciata alle sue cosce muscolose e al suo petto aggressivo era non solo permessa, ma doverosa, pressoché obbligatoria. Lei l’esigeva. Prendeva d’aceto, se le sue forme matronali non erano abbastanza ammirate dai maschi maturi dei dintorni. E i malcapitati – stanziali o di passaggio, maleducati o distratti che fossero – finivano nel mirino della sua lingua tagliente. Al bar dirimpetto, all’edicola, all’alimentari, gli uomini avevano imparato a regolarsi con lei. “E’ mejo fini’ sott’a ‘n treno che sott’a ‘a lingua de la sora Erminia,” dicevano.

La più giovane era meno appariscente. Se ne stava sempre rintanata in fondo alla bottega, tra ferri e tavole da stiro. Aveva un po’ un aspetto da monaca, i capelli scuri raccolti a crocchia fissati da un fermaglio di tartaruga e certi grembiali grigi o neri che la facevano di dieci anni più vecchia.

Per un trentenne che vive solo, una lavanderia con tre donne di mezz’età è un punto di riferimento quasi materno, erano loro che lavavano, stiravano e rammendavano la mia roba. I prezzi erano alti, ma la qualità del servizio era buona.  

Una mattina andai a portare la busta dei panni sporchi e ci trovai dentro un uomo. Sui cinquanta, aveva un’aria un po’ malandrina, il gessato senza cravatta, la camicia scura aperta fino al quarto bottone, che lasciava intravedere una pesante catena d’oro sul petto cosparso di peli già in buona parte imbiancati. A quanto pareva, era in esplorazione. “Domani sposa mi’ fija,” disse. “Ha voluto a tutti i costi sposasse qua, come se chiama ‘sta parrocchia, Santa Prassede… Questa nun è zona mia, noi semo de San Gregorio da Sassola… Come dite voantri, semo burini… Io avrei sposato là, a paese… Ma lei, mi’ fija, s’è messa ‘n testa ‘sta chiesa, dice che l’ha studiata a scola, che ce sta dentro chissàcché… E ‘nsomma, eccome qua, so’ venuto ‘n perlustrazzione, a da’ ‘n’occhiata ‘n giro prima d’a’ cerimonia…” “Auguri!” Gli urlò Erminia da dietro una lavatrice. “Eh, auguri sì, ce n’ho bisogno… Io so’ vedovo, mi’ moje se n’è annata l’artr’anno… mo’ sposa mi’ fija, da domani sto solo…” tirò fuori dalla tasca fonda dei calzoni un fazzolettone e si soffiò il naso.  “Mah, pare che pioverà… dice che porta bbene… Sarà vvero?” Riprese. “Quann’ho sposato io pioveva!” rispose Erminia, vispa, con la sua voce tonante. Era china su una cesta di panni e la gonna corta era rialzata sulle cosce massicce, la scollatura mostrava buona parte del rigido reggiseno nero. “E com’è annata?” Chiese l’uomo. Era interessato. “Bene!” Rise lei. “Dopo trent’anni ancora n’avemo divorziato, co’ quer cornuto de mi’ marito… Ce manca poco, ma ‘nsomma…” L’uomo la invitò al bar, volle offrirle un caffè, fumarono insieme una sigaretta fuori dalla lavanderia. L’indomani, la invitò alla cerimonia. Erminia mise il vestito buono e ci andò. L’uomo, lo si rivide spesso nel quartiere nelle settimane che seguirono.

Le tre sorelle invecchiarono e anni dopo la lavanderia fu rilevata da una famiglia di cingalesi. La grigia e la rossa sparirono. Ma la bruna, la più giovane, tornò. Era ancora in età da lavoro, lei, e non aveva perso il suo aspetto da monaca. Forse s’era affezionata al rione, alla bottega, chissà… Insomma, si fece assumere dai cingalesi, e ripresi a vederla, pallida e composta come sempre, coi capelli che cominciavano a ingrigire, al suo posto in fondo al locale, seminascosta tra le assi da stiro.

Nella famiglia cingalese vigeva un formale patriarcato: l’uomo sedeva dietro una specie di rozza scrivania, di quando in quando impartiva ordini, beveva caffè e in tutta evidenza non faceva assolutamente nulla per tutto il giorno. La moglie, una signora bassina, tarchiatella, che indossava il sari e teneva il capo avvolto in un lungo velo leggero, sedeva dietro al banco e doveva aver ereditato i compiti della sorella grigia: teneva la cassa, riceveva e consegnava la merce e beveva tè. Solo che il tè e il caffè non provenivano più dal bar dirimpetto, venivano fatti a bottega, su un fornelletto elettrico perennemente acceso in un angolo del locale, una specie di cucinino incastrato tra lavatrici e scaffali di panni. Due ragazze in abiti occidentali ma dai lineamenti chiaramente indo-cingalesi – le figlie, verosimilmente – si occupavano di lavare e sistemare la roba sulle stampelle e negli scaffali, e preparavano incessantemente, sul fornelletto, tè per la madre e caffè per il padre.

La clientela cambiò. Certi vecchi clienti sparirono, dei nuovi arrivarono. Tra la donna cingalese e la sorella bruna s’instaurò una specie di riguardosa confidenza. Non amicizia vera, no, sarebbe dire troppo. Però spesso durante il giorno la cingalese trovava modo d’infilarsi nel retrobottega, offriva alla sorella bruna una tazza di tè e si fermava a chiacchierare con lei. A volte la bruna, la monaca, smetteva di stirare e le due donne restavano a conversare in un misto di dialetto romanesco e pidgin indo-italiano. Quando entrava un cliente, la cingalese tornava al suo posto dietro al banco, sotto lo sguardo indifferente e inutile del marito, e la sorella bruna riprendeva a stirare.

Continuavo a servirmi della lavanderia. Erano passati tanti anni, i miei vestiti e le mie abitudini erano cambiati, ma restai loro cliente. La qualità del servizio era un po’ peggiorata, però i prezzi erano calati e il negozio era aperto fino a tarda sera, sabati e domeniche inclusi.

Una mattina andai alla lavanderia con la mia busta di panni sporchi e ci trovai dentro un uomo. Sopra i cinquanta, suppergiù mio coetaneo. Teneva in mano una cravatta, indossava un abito da cerimonia e aveva l’aria agitata e infelice. “Il matrimonio di mia figlia è tra meno di un’ora, qui a Santa Prassede,” disse. “Io mi fermo al bar a prendere un caffè e… non mi verso la tazzina sulla cravatta? Che faccio adesso? Non ho il tempo di andare a prenderne un’altra… si può smacchiare in pochi minuti? Per favore…”

Da dietro la sua scrivania, il capofamiglia s’avvicinò al banco, prese la cravatta la esaminò, la rigirò e la rese all’uomo. “No, signore, troppo macchiata, non si può pulire in poco tempo…” disse in tono indifferente.

L’uomo riprese la cravatta e stava già per andarsene costernato, quando dal fondo della bottega emersero la grassa e goffa moglie, nel suo sari, e la sorella bruna, la monaca. “Prego, signore,” disse la donna. “Faccia vedere cravatta.” La prese dalle mani dell’uomo, lanciò al marito un’occhiataccia che lasciava intendere quanto fossero internamente corrose le gambe su cui poggiava quel patriarcato e restò per qualche istante a confabulare con la sorella bruna. Le due donne si ritirarono nel retrobottega.

Tre minuti dopo ne emersero con la cravatta perfettamente smacchiata e stirata. La sorella bruna, la monaca, aiutò l’uomo a farsi il nodo.  

Sono passati tanti anni e la gente è cambiata, qui nel quartiere, ma alla lavanderia di Largo Brancaccio le cose vanno più o meno come una volta. Vi si beve ancora del tè. Vi si parla di matrimoni e si aiutano padri in difficoltà.


La fotografia accanto al titolo è di Roberto Cavallini

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