Daniela Matronola
A proposito di “Giochi di ombre”

Eroi a Milano

Il nuovo romanzo di Daniela Dawan è una storia di eroi (e favole) a Milano: una città divisa in due. Da una parte quella dei bassifondi e del fango e dall'altra quella su cui splende la luce che tutto fa accecante, a tratti invisibile, o ambiguo

Un verso di una famosa canzone recita, il mondo da qui sembra soltanto una botola segreta: nel romanzo di cui stiamo per parlare, una botola c’è, ed è la porta al vero cuore di una Milano molto diversa dalla Milano che ognuno di noi conosce o anche solo immagina. Come la Parigi di Balzac in Histoire des Treizes, per buona parte del romanzo in questione, Giochi di ombre, di Daniela Dawan, in libreria dal 19 gennaio per la collana ARYA di Giunti, Milano è esplorata e indagata nel suo rovescio o meglio nella sua metà sotterranea, e a farlo sono quattro young adults: Nina, Antonio, Olivia e Omar, cioè coetanei dei destinatari delle storie che l’editore Giunti raccoglie appunto nella collana ARYA (Autori Romanzi Young Adults).

Sono due i mediatori importanti in quest’avventura: la zia Delfina e un monaco trapassato, Gunotto. L’una è una donna generosa e piena di forza, istrionica; l’altro è vissuto secoli prima e ha avuto un po’ di disavventure. E c’è anche una coppia di innamorati che fanno concorrenza a Romeo e Giulietta – sono Ippolita e il Baggino, lui pittore si innamora perdutamente di lei e poi la perde, così continua a “parlarle” con una serie di scritte sui muri che gli costeranno parecchie care, nella Milano del 1630.

Due pure sono le Milano in cui ci ritroviamo a muoverci sulle tracce dei quattro ragazzi. La Milano “di sotto” tra fogne nicchie cunicoli e rifugi antiaerei in cui il buio accresce le altre percezioni e le poche fioche luci (le torce dei cellulari dei quattro ragazzi) riescono a fornire qualche illuminazione, e la Milano “di sopra” su cui splende la luce che tutto fa accecante, a tratti invisibile, o ambiguo.

Il centro da cui tutto si diparte è la casa dove uno dei quattro, Antonio – emulo di Aiace e cultore dei poemi eroici, vive con la zia Delfina dopo esser rimasto orfano, bambino: un monastero benedettino, e Gunotto da Pavia, seguace dell’eretico Giordano Bruno, era uno dei monaci.

Mentre seguiamo i quattro ragazzi, intenzionati a non tralasciare la golosa provocazione di un assito sconnesso e di una botola sullo sprofondo, e con loro teniamo il cuore in gola e proviamo ribrezzo, ci tornano in mente (questo credo riguardi chi è stato young adult qualche decennio fa) Le avventure di Nancy Drew, ma anche le pagine del Manzoni dedicate alla Colonna infame e alla peste con le sue cronache penose su cui egli insiste nel Romanzo. Del resto, Don Lisander è direttamente tirato in ballo quando, nella seconda parte del libro (dove, dopo due giorni di pascolo allo sprofondo, i quattro sono di nuovo all’aria aperta), è evocata la piazza del Teatro alla Scala da cui si dirama il lungo viale che porta il nome dell’autore dei Promessi Sposi.

Proprio mentre leggevo questo romanzo per ragazzi al galoppo, pensavo che dopotutto l’autrice qui fa suo il metodo Manzoni: aggirandosi nei sotterranei di Milano, i quattro protagonisti visitano il passato, e il loro excursus dopotutto parte proprio dal racconto della peste del 1630 per ricostruire il clima di sospetti e sospensione che l’epidemia impone cambiando il valore e le modalità nei rapporti tra le persone, destando l’invasivo intervento delle autorità, imponendo uno stato delle cose che oscilla tra il legale e il poliziesco. Un chiaro richiamo alla pandemia che ci sta tenendo tutti in pugno.

Significativamente i due componenti principali del quartetto sono facce opposte e complementari: Nina, attivista nei Fridays for Future, lotta in difesa del pianeta per la tutela dell’ambiente; Antonio è tutto rivolto verso il mondo classico, l’antichità eroica. Provano entrambi a tirarne i lembi per fare in modo che i due mondi si tocchino e riunendosi ricompongano una loro unità. Proprio come ognuno prova a ricomporre se stesso riallacciando tra loro i diversi piani delle proprie persone.

Perché poi la netta sensazione è che questo romanzo ne contenga due: il mondo di sotto e il mondo di sopra, e il quartetto protagonista più o meno consapevolmente cerchi di riallacciare il loro legame, provi a fare in modo che non solo siano contigui ma tornino a essere compresenti e contemporanei in un eterno presente della coscienza o della consapevolezza. In questo modo nulla è tralasciato e tutto si tiene con tutto, ed è efficacemente recuperato, rimesso in circolazione e reso operante.  

Il tuffo tra le ombre attraversa diverse epoche fino a raggiungere e mettere finalmente in luce una estrema missiva d’amore nell’ultima stazione del viaggio nell’oscurità: un rifugio antiaereo che però, quando ha smesso di servire, è stato murato. Non se ne esce, da lì non si va più da nessuna parte.

Non poche volte i ragazzi devono cavarsela, insieme o orribilmente separati in un ambiente infido, ostile: dovranno ragionare e agire assennatamente per superare ogni impasse e ricongiungersi. Ma ciascuno di loro e tutti insieme sono tramiti del rischio di vedere le cose nella giusta prospettiva, proprio come quando si contemplano gli astri: il firmamento è un inganno, se ci si potesse muovere avanti e indietro, in superficie e a fondo, nella volta del cielo, si coglierebbe non solo la sua natura, tutt’altro che piatta ma opportunamente curva, ma soprattutto si percepirebbe volta per volta la sua autentica struttura. Dopotutto una brillante proiezione di come, attraverso l’esperienza, funziona la conoscenza: per progressive acquisizioni e aggiustamenti costanti. Proprio come certe presenze che da una certa posizione senza equivoci si colgono e spariscono da diversa distanza o inclinazione.

La costruzione del libro punta su un gioco di echi corrispondenze e rispecchiamenti da un lato, per suggerire la fitta rete di dati che ci fornisce la realtà per essere percepita includendoci o escludendoci – e dall’altro lato ci raffigura la memoria come un intricato sotterraneo di infinite scale e ribalte che spesso non portano da nessun’altra parte come certi labirinti senza fine di Maurits Cornelis Escher. Avevamo conosciuto Daniela Dawan soprattutto per Qual è la via del vento (e/o 2018), una storia familiare che ricostruiva l’esilio forzoso dalla Libia, un romanzo a tutti gli effetti il cui cuore nascosto o vero nucleo era il ricongiungimento, oltre che con la patria dell’infanzia, con una sorellina perduta: il recupero di un giardino dove la piccola riposa, dunque il fazzoletto di terra che davvero può essere patria perduta, non certo in senso nazionalistico, ma come appartenenza del cuore e degli affetti. Bè, quest’idea serpeggia anche qui. Anche qui ritroviamo la freschezza, la purezza di cuore, nei quattro ragazzi, la stessa generosa, onesta, leale dedizione all’accertamento della verità, senza rinunciare neanche stavolta a quel tanto di magia e di aura che avvolge il mistero delle nostre esistenze e ci spinge a vederci chiaro.

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