Raoul Precht
Periscopio (globale)

Cinzia e Zullino

Ritratto di Pietro Zullino, giornalista d'inchiesta che rivelò il marcio della mafia (non solo a Palermo) e romanziere raffinato. La sua versione della storia di Properzio e della sua amante e musa Cynthia è tutta da rileggere

C’è una coppia inconsueta e straordinariamente trasgressiva che ha attraversato la letteratura italiana e di cui in pochissimi si sono accorti: si tratta di Properzio e della sua amante e musa Hostia, alla quale nelle Elegie verrà poi assegnato il nome per cui è divenuta giustamente famosa, quello di Cynthia. Questa storia d’amore di duemila anni fa è stata nuovamente raccontata, con accenti al contempo lirici ed epici, da un giornalista e scrittore che ci ha lasciato dieci anni fa, il 4 gennaio del 2012. Parlo di Pietro Zullino, più noto in vita per talune brillanti e fumiganti inchieste giornalistiche che per il suo pur validissimo contributo alla narrativa.

Classe 1936, figlio del direttore della scuola elementare italiana a Parigi e di una maestra (aquilana di origini armene), figlia a sua volta del fotografo Alfredo Agamben, Pietro Zullino frequenta il liceo classico a Roma e si laurea in legge alla Sapienza. Intraprende poi una movimentata carriera giornalistica, che lo porta a far parte negli anni Sessanta della redazione della rivista Epoca e a dirigere Il Settimanale e per poco più di un anno il quotidiano Roma, allora di proprietà di Achille Lauro, con cui ebbe un prevedibile scontro. Fra i suoi maggiori successi in questo campo citiamo almeno la rivelazione, nel 1962, di collusioni fra deputati democristiani e criminalità organizzata, inchiesta che costringerà il mondo politico a istituire la commissione parlamentare antimafia; la scoperta, nel 1966, dell’affaire Franca Viola, la ragazza siciliana che per prima ebbe il coraggio di rifiutare il matrimonio riparatore con un mafioso locale che l’aveva violentata, vicenda che Zullino ebbe il merito di amplificare e portare a livello nazionale; vari articoli e un libro, la Guida ai misteri di Palermo, 1973 (a lungo introvabile e poi ripubblicata nel 2014 da Flaccovio), sul declino e il degrado della città, messi direttamente in relazione con l’origine e gli sviluppi della mafia in Sicilia e sulle dimensioni crescenti, anzi ormai planetarie, in particolare di quella panormita; rilevanti contributi riguardo alla figura di Salvatore Giuliano e alla strage di Portella della Ginestra nonché sulla morte di Enrico Mattei e sul caso del giornalista Mauro De Mauro, di cui Zullino ripercorre con acribia le circostanze della sparizione, avvenuta nel 1970 ad opera della mafia e con il coinvolgimento di politici all’epoca di spicco. Sarà fra i primi a parlare di una “apolide, supernazionale, intercontinentale (…) aristocrazia del danaro” e avrà toni profetici nel presentare Palermo come quella capitale dei sordidi intrecci affaristici fra mafia e politica che sarebbe divenuta negli anni immediatamente successivi all’uscita del libro, fino e ben oltre il maxiprocesso a Cosa Nostra che si sarebbe svolto solo nel 1986.

Pietro Zullino

Ma Zullino non si ferma qui: il suo teorema, poi confermato dai fatti, è quello della “panormizzazione” dell’intera nazione, a cominciare dalla Capitale, sempre più conquistata nei suoi gangli vitali dalla mafia, quella strana e sfuggente entità che, come tutti sanno, da noi non esiste… Mi fermo qui e consiglio di leggere al riguardo il libro su Palermo – una guida davvero sui generis ma a suo modo completa anche sotto il profilo storico – con l’accurata prefazione di Maria Antonietta Spadaro che ne racconta la genesi e la presentazione di Amedeo Lanucara che di Zullino traccia un ritratto affettuoso, ricordando anche il paradosso di un giornalista di razza condannato in tribunale al solo fine di screditarlo (così come con tutti i mezzi era stato screditato a suo tempo Di Mauro), mentre nello stesso processo viene assolto un capomafia come Totò Riina. Non eravamo nell’Ottocento, ma nel 2010. Una vergogna, questa, accanto a tante altre che macchiano la nostra magistratura – si pensi solo al caso Tortora – che, se solo fosse vissuto più a lungo, Zullino avrebbe certamente denunciato con forza, capovolto e respinto al mittente.

Autore di molti altri libri, che spaziano dalla ricostruzione storica alla fantapolitica – Il Comandante, sulla controversa figura di Achille Lauro, Sciumbasci, Giuda, Il 25 luglio, Io, Ippocrate di Kos, Catilina, I sette re di Roma, una biografia di Luigi Sturzo ecc. –, Zullino va ricordato inoltre da un lato per il generoso sforzo di riportare all’attenzione del pubblico l’opera di Laudomia Bonanni, un’amica di famiglia, per la quale si spenderà moltissimo, fondando e dirigendo l’associazione internazionale a lei dedicata, e dall’altro, soprattutto, per il folgorante romanzo cui accennavo all’inizio, Cinzia, con i suoi occhi, un libro che nella prima edizione apparve senza indicazione d’autore, attribuito anzi allo stesso Sesto Properzio. Qui mi riferirò all’ultima edizione apparsa nel 2018, a cura di Olga Cirillo e con una partecipe e vibrante introduzione di Fabrizio Falconi, per i tipi della Società editrice Dante Alighieri.

In questo Properzio ardimentoso, litigioso, iconoclasta, incapace del minimo compromesso Zullino deve essersi ben ritrovato e rispecchiato. Il protagonista del libro, un ragazzo di provincia venuto da Assisi che della Roma augustea inizialmente non capisce affatto il funzionamento, tanto da non trovarvi alcuna collocazione, dà allo scrittore la possibilità di analizzare e al contempo affrescare un’intera società, senza però limitarsi a spente catalogazioni di persone, luoghi e oggetti, ma trasfigurando il tutto con un linguaggio a volte fin troppo potente e innovativo. Nella sua ambiguità di angelo che al contempo si comporta da demone, o viceversa, il personaggio di Properzio si tramuta in un contestatore, acerrimo nemico della poesia allineata al potere imperiale, e questo avviene non per ragioni politiche o ideologiche, ma perché egli è mosso da una forza irresistibile, l’amore, un amore folle e fuori luogo che travalica ogni prudenza e rende immediatamente caduco qualunque tentativo di mettergli un freno. Una forza che lo porta magari a sragionare, ma sempre in modo provocatorio e stimolante. È infatti l’amore vietatissimo per l’etera Hostia – amore cantato nelle Elegie e messo quindi impudicamente a disposizione di tutti – ad avviare tutti i meccanismi del romanzo, fino alla perdizione finale di entrambi gli amanti. E si tratta di un amore non convenzionale, ancorato a una filosofia erotica trasgressiva e corredata di sottili intuizioni. Un esempio fra tanti: “E se [le donne] si vestono in modo provocante e si truccano e si atteggiano, non è per sedurre di più il maschio, tutto il contrario! È per frenarne la libidine violenta. Per aggiogarlo a un rituale erotico fatto di odori, visioni, forme, complimenti, colori. È per mettere la bestia a regime. Per farla entrare in una liturgia. Per arrivare alla copula evitando lo stupro, ecco perché si truccano – credo.”

Magistrale e anticonformistica è anche la descrizione degli ambienti letterari dell’epoca, dominati dalle figure di Virgilio e Orazio, attivi nel circolo di Mecenate e cantori della grandezza augustea. Nella casa di campagna di Orazio, durante una festa, avverrà anzi il grande scandalo che porterà l’imbucato Properzio a insultare il padrone di casa e a perdersi definitivamente. Fra i personaggi figura poi Tito Livio, detto Ligio (al potere, naturalmente). E non mancano Tibullo e Ovidio, con i poeti del circolo di Messalla, parallelo e concorrenziale con quello di Mecenate, né Catullo con la sua Lesbia, i quali in qualche modo prefigurano il rapporto conflittuale fra Hostia e Properzio, anche se per quest’ultimo il canto di Catullo per Lesbia “si era ben presto trasformato in odio e sconce imprecazioni, quindi non faceva al caso mio”. Del resto, Catullo, appartenente alla generazione precedente, a differenza di Properzio non ha mai scritto vere elegie amorose nel segno della tradizione avviata invece da Cornelio Gallo (di cui, come sappiamo, nulla è rimasto). Nel libro di Zullino l’ossessione amorosa è comunque parte integrante dell’ossessione poetica, e la profonda conoscenza dei poeti latini consente all’autore di raccontarli con schiettezza, in modo mai compiacente, come si avverte anche in questa descrizione di Tibullo: “Tra i poeti latini dell’ultima leva, chi altro c’è stato con una bella voce? Lumacone Tibullo. Eh, intendiamoci, elegiaco ortodosso anche lui, niente lira, soltanto flauto, però non lagnava, cantava. E peccato che passasse da una depressione all’altra, perché se sapevi tirarlo fuori dal suo guscio aveva una voce proprio bellissima.”

A proposito di voci, una notevole intuizione di Zullino è stata proprio la decisione di fare di Properzio l’inconfondibile voce narrante dell’intera vicenda, con una variante dello stream of consciousness di stampo joyciano che attinge anche al gergo, al dialetto, alla ripetizione ossessiva di termini e non si ferma dinanzi a sgrammaticature e anacoluti, come in ogni presa diretta che si rispetti. C’era un precedente illustre, certo, ed era quello del poema di Ezra Pound del 1919 (Homage to Sextus Propertius). Pound vi aveva tentato la strada altrettanto innovativa della traduzione-ricreazione o imitazione, o ancora creative translation, all’epoca criticata da molti ma che oggi può essere considerata a pieno diritto una delle forme possibili della traduzione contemporanea. Anche da noi ha dato nel frattempo ottimi risultati: si pensi per esempio alle libere rielaborazioni, da Ovidio e altri, del compianto Pietro Tripodo. Ma tornando a Properzio, è come se il nostro poeta si presti particolarmente a fare da modello a scrittori, come Pound e lo stesso Zullino, che rifuggono da ogni accademismo, che fanno prevalere la libertà assoluta (e qualche volta l’arbitrio) sulla perfezione formale.

Venendo al contesto generale, qui la Roma imperiale fa evidentemente da segnaposto alla società a noi contemporanea, con i suoi riti, le follie, le contraddizioni, l’inarrestabile livellamento verso il basso, le sue banalità esaltate e le tragedie trascurate. È una società apparentemente raffinata e in realtà cruenta, nei cui salotti buoni un personaggio anomalo come Properzio non può trovare facilmente posto, sia per la sua origine provinciale e la sua povertà, veri marchi d’infamia, sia per la sua impermeabilità alla piaggeria e alla celebrazione dei potenti. Nei cinque anni della sua rapida ascesa e dell’altrettanto rapido (e doloroso) declino, in cui paradossalmente a proteggerlo è la sua irrilevanza sociale, più ancora del momentaneo successo editoriale, Properzio va sempre più affinando la capacità e soprattutto la volontà di autodistruggersi. Quanto all’oggetto del suo ossessivo amore, è abilissimo Zullino nel sottolineare la dicotomia fra la prostituta che invecchia e perde i suoi migliori clienti, anche a causa delle manovre imprudenti del giovane amante, e l’immagine che di essa crea Properzio, trasfigurandola in un personaggio letterario eternamente giovane e fresco (Cinzia, appunto) che ancora oggi fa sognare il lettore delle Elegie: “seu nuda erepto mecum luctatur amictu, tum vero longas condimus Iliadas” (II, 13-14) ovvero “se nuda, poi – via di colpo la tunica – con me la lotta affronta, io allora avvio Iliadi senza fine” (trad. di Roberto Gazich).

A voler essere del tutto onesti, il divertente libro di Zullino non è esente da talune pecche, che alcuni dei suoi primi lettori (come Lucio Mariani) gli avevano peraltro segnalato, ma che lui aveva deciso d’ignorare, con pervicacia degna del suo Properzio. Si tratta quindi quasi sempre non di sviste, ma di scelte poetiche, che restano discutibili ma che, in quanto tali, vanno accettate. Così, nel testo ora ripubblicato, al netto di qualche errore di stampa compaiono per esempio degli anacronismi (il golem, Hostia presentata come “single”, lo château relais, l’espressione “colpirne uno per educarne cento”) dei prestiti da altre lingue, soprattutto inglese e francese (“si mocca” per “si burla”, “hein?” come intercalare di un personaggio secondario, ecc.) nonché delle ripetizioni peraltro facilmente evitabili (“era successo che volevo il successo”).

Mi congedo dal lettore con un’ultima citazione dal romanzo, da meditare sino in fondo: “…credo d’aver capito,” scrive Zullino, “perché Omero fa durare tanto tempo la guerra di Troia. Da gran conoscitore del cuore umano, volle tramandarci questa grande metafora: che ogni uomo spende la parte migliore della propria vita in un vano assedio al miraggio di una irraggiungibile felicità: e il tensore della speranza corrisponde alla durata dell’assedio. Presa o perduta la città la tensione cade, la speranza muore. Torni a sapere che non potrai mai essere appagato. Fuori dal sogno, la vita ricade nel suo ordinario squallore.” E conclude la riflessione così: “Elena: ovvero, il fantasma incarnato della felicità!”

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