Pier Mario Fasanotti
A proposito del "Secolo della solitudine"

Solitudine di massa

La sociologa inglese Noreena Hertz analizza uno dei fenomeni più inquietanti tra quelli connessi al covid: la perdita di rapporti sociali. Una menomazione che ha origini economiche e psicologiche (precedenti alla pandemia) ma destinata a influire sui corpi più di quanto si pensi

«Questo è il secolo della solitudine». Affermazione perentoria, alla quale sarebbe arduo, se non impossibile, opporsi. La tesi – sorretta da una nostra personale percezione nonché da una documentazione scientifica molto ampia – è di Noreena Hertz, di Cambridge, che si occupa di sociologia ed è consulente di management. Il suo poderoso saggio (Il secolo della solitudine, 441 pagine, 25 Euro) è stato appena pubblicato dal Saggiatore.

Innegabili i dati di fatto. Confessa una moglie: «Accoccolata contro di lui, il mio petto che preme sulla sua schiena, i nostri respiri sincronizzati, i piedi intrecciati. Ecco come abbiamo dormito per oltre 5000 notti. Di giorno zigzaghiamo a due metri di distanza. Abbracci, carezze: il nostro codice quotidiano è ora proibito. “Stai lontano da me” è il nostro appellativo affettuoso.». La dichiarazione risale al 2020 (quando un terzo della popolazione mondiale è stata presa in contropiede), ma sono in tantissimi a prevedere che dovremo convivere, sotto varie forme (e chissà per quanto tempo), con quel mostro planetario che si chiama Covid. Per fortuna, a quanto ne sappiamo, pochissimi credono che la pandemia sia una atroce punizione divina (ci sarebbero altrimenti cortei di autoflagellanti, come nella peste nera del 1300, al confronto dei quali le manifestazioni no-vax sarebbero da considerare del tutto pacifiche).

Certo, si parla sempre più sovente di vaccini (quante saranno le dosi, quante le varianti, più veloci e subdole di serpenti), della loro efficacia temporale, dell’influenza sui bambini. Il lessico anomalo si diffonde: «distanza sociale», «quarantena», «zone bianche, zone gialle, zone rosse» e via dicendo. È una paurosa arlecchinata. Un uomo scrive al suo migliore amico: «L’isolamento mi fa impazzire». Certo, non siamo più agli esordi dell’aggressione infettiva, con la Cina che continua a rifiutare una seria indagine sul campo, là dove i pipistrelli si sono sentiti minacciati e si sono ribellati alla depredazione del loro habitat (no comment sull’abitudine di porli sulle bancarelle per essere comprati e mangiati): è scattato lo «spill-overı», trasmissione dell’infezione dall’animale all’uomo, meccanismo criminale tollerato da anni e anni da un paese dittatoriale.

Non è successo d’improvviso, se si considera l’effetto psicologico del Covid: già nel 2014 due quinti degli anziani dissero che la loro principale fonte di compagnia era la televisione. Difficile scovare dati certi, ma è verosimile che il piccolo schermo sia ora acceso per un enorme numero di ore, con programmi inzeppati di pubblicità inneggianti al consumo, frutto inesorabile di un intaccabile neo-liberismo: l’odioso e martellante black-friday ha avuto il suo apice, una sorta di climax sociale.

Smartphone e social network ci hanno, in un certo senso «preparati» all’auto-isolamento, a alla riduzione del dialogo vero tra umani, e quindi anche a quell’eccezionale propensione all’empatia. I topi da laboratorio insegnano: se, dopo alcune settimane di isolamento, si inserisce nella gabbietta, il «padrone di casa» lo respinge con forte violenza. Nello studio edito dal Saggiatore, si accenna a reazioni simili, o quasi, tra gli umani. Dicevamo che l’esplosione della solitudine non ha per nulla un inizio certo. Ricordiamo che con la crisi finanziaria del 2008 le politiche dell’austerity coatte hanno demolito biblioteche, parchi pubblici, circoli giovanili. Attenzione: quel che è stato spazzato via sono luoghi in cui esercitiamo la civiltà e la democrazia, «nella sua forma inclusiva, imparando a coesistere pacificamente con persone diverse da noi e a gestire punti di vista diversi». Scrive l’autrice: «Senza questi spazi che ci permettono di riunirci è inevitabile che ci allontaneremo sempre di più». Aggiungiamo noi: i bambini sono esseri naturalmente aggreganti. Ma come la mettiamo oggi, quando i dati ci avvertono che essi sono portatori di Covid? Avremo bambini sempre più soli? Non è da escludere.

Dal punto vi vista sociologico, al volgere dello scorso decennio, un numero record di persone di tutto il mondo credeva che il capitalismo attuale facesse più male che bene. Di fronte ai grandi interventi fatti dai governi – dice la studiosa inglese – circa la metà della popolazione pensava che fosse davvero così, ossia che lo stato fosse così asservito al mercato da non prendersi più cura di loro da non preoccuparsi dei loro bisogni. Risultato: sentirsi trascurati, invisibili e impotenti in questo modo ci fa sentire soli. E ancora: «Se vogliamo fermare il percorso distruttivo della solitudine e recuperare il senso della comunità e coesione che abbiamo perso, dovremmo prendere atto che ci sono passi da compiere, come anche compromessi a cui dovremo scendere – tra individualismo e collettivismo, tra interesse personale, tra anonimato e familiari, tra comodità e cura degli altri, tra ciò che è giusto per se stessi e ciò che è meglio per la comunità, tra libertà e fratellanza».

Gli scienziati hanno scoperto che la solitudine ha manifestazioni corporee. Insomma: un corpo che vive in solitudine non è un corpo sano. La solitudine evoca soprattutto l’idea della staticità. È un dato certo che se si è soli si ha un rischio di malattie coronariche maggiore del 29%, un ictus superiore al 32%, e la probabilità di sviluppare demenza clinica. Non vorremmo essere allarmisti, ma crediamo alla scienza: se ci si sente soli o si è socialmente isolati (fattore che ha interessato prevalentemente gli anni 2000 e una gran parte dell’anno successivo), la lunghezza della vita è minacciata, anche se la vedovanza è relativamente breve, dalla scomparsa del coniuge.

Aggiunge la scienziata di Cambridge: «Considerando il periodo di isolamento forzato che la maggior parte di noi ha vissuto nel 2020, tutto questo fa suonare un campanello d’allarme».

Certe comunità ebraiche ortodosse, come gli haredim, sono un poco più fortunate all’interno del groppo israelitico. Prendendo in considerazione altre zone geografiche. Alcune comunità coese che preservano la salute dei propri membri includono gli abitanti della Sardegna (salvo recenti parentesi statistiche), quelli dell’isola di Okinawa in Giappone, nonché gli avventisti del Settimo Giorno di Loma Linda, in California. Queste aree sono state battezzate «zone blu». Un esperto, riferendosi a zone non così brutalizzate da Covid, ha pronunciato una frase importante: «Non puoi uscire dalla porta di casa senza imbattersi in qualcuno che conosci». Da noi capita questo? Senza escluderlo, è un fatto abbastanza raro. La socialità (ovviamente protetta da vaccini e mascherine) è fonte di maggior benessere.

Evitiamo tuttavia – osserva l’esperta inglese – un eccessivo romanticismo. Evitiamo, almeno in parte, questo atteggiamento quando si parla di comunità come fonte di benessere sociale e individuale. Afferma: «Le comunità sono esclusive per definizione, e come tali possono essere sia eccessivamente chiuse che ostili nei confronti degli estranei. Spesso non ammettono diversità o anticonformismo, che si tratti di interessi, strutture familiari non tradizionali o credenze e stili di vita alternativi.  Nel caso degli haredim (ultraortodossi, ai quali abbiamo accennato poco sopra) e degli Avventisti del Settimo Giorno, per esempio, chi non si attiene alle norme della comunità (che immaginiamo severe, ndr) la comunità può essere brutale e brutalmente rapida». Quest’ultima proposizione lascia pensare al peggio. Con riferimento alla pandemia Noreena Hertz, ci tiene a dire e ripetere che «la solitudine danneggia il nostro sistema immunitario, e incide anche a livello cellulare e ormonale». Il panorama contiene un alto tasso di tristezza, o di allarme: «Quando siamo soli dormiamo meno, per esempio, e la mancanza di sonno può innescare i sintomi depressivi. A loro volta i sintomi della depressione possono alimentare la solitudine, rendendo più difficile per la persona depressa legarsi agli altri. Idem per l’ansia sociale che «ha reso il mio mondo più piccolo». Inoltre il rapporto tra solitudine e suicidio sarebbero legati, per alcuni esperti. Per fortuna si usa il condizionale. La scienziata inglese riporta anche il caso di un uomo che ha perduto la sua cagnetta. Forse è esagerato quando afferma di essere «un subumano», aggiungendo una nota pietosa: «Si prendeva cura di me, e il mio unico scopo della mia vita era prendermi cura di lei in cambio. Ora se n’è andata, e in questo mondo non mi è rimasto nulla». Senza dubbio un caso estremo di lutto. Dietro al quale chissà quali patologie si nascondevano.


La fotografia accanto al titolo è di Roberto Cavallini

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