Attilio Del Giudice
Un racconto inedito

Negozi

«Un bel giorno (si fa per dire) Leopoldo impazzì. L’avvisaglia si ebbe inequivocabilmente quando lui, uomo mite e pacifico, prese a schiaffi un povero vecchietto, che s’era lamentato di una mosca finita nel suo bicchiere di latte»

Tornando a casa ci passo davanti ogni giorno e ho potuto valutare che questo negozio è diventato per i ragazzi borghesi della nostra città il tempio dell’eleganza maschile, quello più frequentato dai figli di papà che possono spendere. Un negozio di culto. E pensare che qui, una volta, c’era una latteria, povera, disadorna, piuttosto triste. Il proprietario si chiamava Leopoldo, un brav’uomo silenzioso, alto di statura, un po’ ingobbito, sempre serio. Chissà perché mi sembrava che somigliasse al suo locale e che tra quel luogo e Leopoldo ci fosse un legame profondo e inscindibile.

Della moglie, Marianna, si sapeva che non gli era fedele: “A letto -diceva – meglio un bucato soldo che un cetriolo come Leopoldo”. Seguiva, puntualmente, una risata compiaciuta della battuta. Lui sopportava, senza reagire, restando serio e triste.

Un bel giorno (si fa per dire) Leopoldo impazzì. L’avvisaglia si ebbe inequivocabilmente quando lui, uomo mite e pacifico, prese a schiaffi un povero vecchietto, che s’era lamentato di una mosca finita nel suo bicchiere di latte. Marianna si dette da fare per l’interdizione e farlo rinchiudere in manicomio (all’epoca i manicomi erano a pieno regime).

Il locale fu venduto a un parrucchiere, un tipo un po’ pipì, ma fortunato. Dopo una decina d’anni, vinse una somma considerevole al totocalcio e se ne andò a vivere alle Canarie. Un suo nipote, in odore di camorra, vi aprì un bar, noto in città per le frequentazioni delle prime trans sul mercato del sesso e delle prostitute dell’Est. Il giovanotto finì, però, in galera dopo qualche anno per abusi gravi su una ragazzina tredicenne albanese. Dopo una lunga chiusura, nel negozio subentrò un istriano, commerciante esperto, del quale, attualmente, si notano  il sorriso e i modi fascinosi coi quali propone la merce generalmente firmata a prezzi decisamente alti e non trattabili. Fa affari d’oro.

Certo le storie dei negozi sono metafore della vita stessa: dell’umiltà e dello sfarzo, dei tradimenti e della follia, delle incapacità e delle attitudini e, naturalmente, delle inconfutabili variabili della Suerte, ma mi è capitato di dover constatare che questo negozio ha una caratteristica che lo rende diverso da tutti gli altri, almeno credo.  L’altro giorno ho avvertito come un impulso irresistibile ad entrarci. Appena varcata la soglia, sento una voce che mi parla e che non è quella del gestore attuale, ma è la voce del primo proprietario. Il fatto singolare è che questa voce parla per me e solo io la sento. È la voce di Leopoldo, l’uomo triste, un po’ ingobbito. Lui mi sussurra all’orecchio e mi guida verso i camerini delle prove e, alla fine, a un pianerottolo da dove scende verso gli scantinati una scala a chiocciola di ferro, che direttamente conduce in una stanza vuota, senza mobili, male illuminata. C’è solo una lampadina che scende dal soffitto con un filo elettrico. Qui, in questa stanza silenziosa, la voce di Leopoldo si fa più chiara. È a conoscenza della mia attività di narratore ed è per questo che vuole raccontare la sua storia. Sembra che non ne possa fare a meno e mi supplica di ascoltarlo. Parla di Marianna, la spregevole meretrice che lo tradiva innumerevoli volte, spesso con amanti occasionali coi quali le piaceva praticare le “sveltine”. Gli amplessi venivano consumati quasi ogni giorno nello sgabuzzino delle scope, degli spazzoloni e degli stracci per lavare, mentre lui, il marito, era in cucina a preparare i panini. Mi racconta della malvagità, perpetrata ai suoi danni, della vita tremenda nel manicomio, delle sedute con l’elettroshock e di quella volta che si scordarono di mettergli un panno bagnato in bocca e gli si spezzarono quattro denti; delle punizioni che di tanto in tanto riceveva, del letto di contenzione, delle camice di forza, della sporcizia, del tanfo nauseabondo per le defecazioni incontrollate dei malati di mente. Mi dice anche che nel manicomio aveva un grande amico fraterno, un ragazzo dolce, detto il biondino, morto per aver ricevuto nello stomaco una feroce scarica di pugni da parte di un sorvegliante, detto Bufalone per la sua grossa stazza animalesca. Il biondino lo aveva sputato in faccia, perché il bruto aveva provato a sodomizzarlo.

Ricorda anche della mosca maledetta che era una creatura del demonio, finita nel latte del vecchietto che aveva schiaffeggiato. Insomma, un indicibile strazio. Poi mi sembra che la sua voce, sempre velata di pianto, si deformi come per una sopraggiunta inarginabile commozione, non riesce a pronunciare le parole, emette suoni rauchi di disperazione. Io cerco locuzioni di conforto,  gli dico: “Ora tutto è finito, signor Leopoldo, è acqua passata, su col morale, non faccia così, non pianga! Lei sta vivendo un’altra vita, credo sia migliore della sua vita terrena, ne sono sicuro, di gran lunga migliore, o mi sbaglio? Mi dica, mi dica, si apra completamente con me, la prego!”

Lui su questo argomento non mi risponde, non so perché. Anzi, all’improvviso, si ammutolisce, subentra un assoluto silenzio e io capisco che il nostro incontro è finito. Col nodo alla gola per un forte coinvolgimento emotivo mi accingo a risalire nella sala con le luci, gli specchi e i commessi che mostrano la merce e parlano coi clienti.   Avverto un gran turbamento, una inquietudine che mi riesce difficile nascondere, per non dare nell’occhio e suscitare sospetti, compro una cravatta.


La fotografia accanto al titolo è di Roberto Cavallini

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