Alberto Fraccacreta
“Piazzale senza nome” di Luigia Sorrentino

Memorie di naufraghi

Nella nuova raccolta della poetessa napoletana trovano riscatto i tanti giovani morti per droga incontrati nella giovinezza. Attraverso la parola lirica si riempiono i vuoti, si curano le ferite così che «la morte svanisca e avvenga la resurrezione»

Può la poesia rendere giustizia ai dimenticati della storia? Sembra questa la domanda posta in esergo da Luigia Sorrentino in Piazzale senza nome (Samuele Editore, La Gialla Oro, 102 pagine, 13 euro), silloge che reca con sé lo stigma dell’ampio «poema» e l’«incisività del frammento». I versi di Sorrentino sono noti per essere slabbrati e icastici, lacerti di un “pensiero poetante” che si infrange direttamente nelle sorgenti del logos e interroga la tradizione classica – la tragedia greca, in particolare, ma anche Plutarco, al quale è affidata la sintomatica epigrafe d’apertura – per acquisire un dettame coriaceo, oracolare (un possibile parallelo potrebbe istituirsi con le modulazioni vocali di Mariangela Gualtieri; penso a Paesaggio con fratello rotto, da poco ristampato da Einaudi). I dimenticati sono, in tal caso, i tanti giovani morti per droga che la poetessa ha incontrato nel periodo adolescenziale e dei quali ha seguito, non senza la partecipazione attiva per un possibile riscatto, la dolorosa parabola. Il riscatto è ora tutto affidato alla poesia, unica depositaria della mancata nominanza: «deve andare/ mani abbandonate e sole – il polso/ non si sente più –/ il respiro precipita nel vuoto/ la corsa chiude il suo ritorno// stringergli la mano/ nella calma materna corre tutta la vita». 

Il piazzale, il largo spazio esistenziale dell’autrice in cui sono transitati i volti inani della giovinezza, è senza nome in modo che sia la parola lirica a empire i vuoti, gli interstizi, le ferite. Elemento precipuo di questa ritualità è, non a caso, la “capra” (ovvio il cenno sabiano), il cui incremento semantico va però ricondotto al capro, il capro espiatorio di girardiana memoria, simbolo di una gioventù sacrificata («la capra geme sul tavolo/ la gravità, oscura forma,/ la preda»; e ancora: «tutti mangiarono la capra/ sgozzata, anche il più giovane// estenuante saliva una musica percussoria/ una musica che solo l’universo sopporta// sangue eccitato dalla persecuzione/ sangue scaricato nella malattia/ dai morsi inferti nella carne/ oltre o sopra la morte/ digrignare di denti// febbre precipitata all’orecchio della capra/ alla sua testa, nel lago della sera»).

Insomma, il tema principale del libro non è soltanto la morte “giovane” in sé, ma l’insostenibilità quasi ontologica della morte di un giovane (indicativa è appunto la citazione plutarchiana: «La morte dei vecchi è come un approdare al porto, ma la morte dei giovani è una perdita, un naufragio»). È qui che si inserisce un motivo in qualche modo cristologico – non dimentichiamo che Gesù è un giovane crocifisso –, legato a quello che Alfred Kolleritsch avrebbe definito il primato della fioritura: «la gioia del fiorire/ ebbe inizio in te/ la pienezza riempiva i frutti/ l’imperioso fare ci ha traditi// – siamo stati traditi dagli organi vitali –// la durata non ci tocca più/ svuota le nostre vene/ la giardiniera inghirlandata/ ci arresta tra soste d’amore// guardandoti il volto distende/ l’impronta della morte è svanita». La gioia del fiorire. Insradicabile. Sono le «soste d’amore» a fornire il volto disteso, la possibilità che la morte svanisca e avvenga la resurrezione degli scomparsi. Resurrezione chiesta anche per il padre, altro personaggio cruciale di Piazzale senza nome: persino il suo rivivere, rifiorire diviene cosa concreta, «negli utensili che usavi per diserbare il giardino: vanga, zappa, forbici, rastrello, cesoie. Il tuo antico cuore riposa a una distanza breve, perpetua, imponente, come la musica, una pala che scava il sole».

*

guardarti a notte fonda 
mentre dormi sulla poltrona

l’alba nella gola 
conserva da millenni 
l’eco delle nostre voci

l’addio è una gola carsica 
spegne il canto il velo di pietà

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