Raoul Precht
Periscopio (globale)

Memoria di Sebald

Ritratto di W. G. Sebald a vent'anni dalla morte. Lo scrittore tedesco rappresenta perfettamente il conflitto con la memoria condivisa vissuto dalla generazione che ha dovuto fare i conti con il nazismo e con le tragedie del Novecento

Due settimane fa, parlando di Flaubert, ricordavamo qui la sua teoria secondo cui lo scrittore deve essere ordinato e ordinario come un borghese nella vita privata, per poter poi essere violento e originale nelle sue opere. È questa una delle massime flaubertiane preferite anche da W. G. Sebald, scrittore tedesco vissuto per molti anni in Gran Bretagna, di cui ricorre oggi il ventennale della morte. Docente alla University of East Anglia a Norwich, sposato e padre di una figlia, Sebald ha vissuto un’esistenza apparentemente priva di scossoni, almeno fino al momento di essere colpito da un aneurisma mentre guidava nei dintorni della sua abitazione e di restare ucciso nella collisione con un camion. Proprio nel momento in cui il suo stile e il suo modo di scrivere si stavano imponendo in Europa e negli Stati Uniti (grazie anche al sostegno convinto di estimatori influenti come Susan Sontag) e gli stavano assicurando una rapida notorietà.

Nato nel villaggio di Wertach, nell’Allgäu, nel 1944, Sebald fu esonerato per ragioni di salute dal servizio militare e si iscrisse all’Università di Friburgo per studiare germanistica e anglistica. Resosi conto ben presto che l’ambiente di Friburgo non gli si addiceva, si spostò di duecento chilometri riparando nell’altra Friburgo, quella svizzera, dove fu ospite della sorella (senza dover quindi dipendere da un sussidio paterno) e dove si laureò nel 1966 con una tesi sul drammaturgo espressionista Carl Sternheim. Tesi peraltro molto polemica, in cui con giovanile veemenza rimproverava a Sternheim, uno dei massimi fustigatori dei costumi della Germania guglielmina, di essersi integrato e assimilato troppo in quella stessa società che tanto aspramente criticava. L’anno successivo Sebald si trasferì nuovamente, stavolta a Manchester, dove cominciò la carriera accademica che l’avrebbe poi portato a insegnare a Norwich, dove avrebbe anche terminato il dottorato con una tesi su Alfred Döblin.

Malgrado l’apparente linearità della biografia e le numerose testimonianze che l’hanno ritratto come una persona ironica e allegra, Sebald dovette superare diversi traumi. Il primo, anche se potrà sembrare un’esagerazione, è legato al suo stesso nome, Winfried Georg, nome che considerava (soprattutto la prima parte) come un’escrescenza del passato nazionalsocialista e che quindi aborriva. Di qui la decisione di presentare le proprie opere sempre solo con le iniziali e di farsi chiamare invece Max nella vita privata. Il secondo sta sicuramente nel difficile rapporto con il padre, che da soldato della Wehrmacht aveva contribuito attivamente all’invasione della Polonia nel 1939 e che prima della disfatta finale aveva fatto una modesta carriera nell’esercito tedesco. Sebald lo conoscerà all’età di tre anni, all’inizio del 1947, quando tutta la famiglia andrà ad accoglierlo al momento del suo rilascio da un campo di prigionieri di guerra in Francia. Uomo chiuso e autoritario, indebolito fisicamente dalla guerra e al tempo stesso amareggiato, il padre si sarebbe sempre rifiutato di parlare con il ragazzo delle sue esperienze belliche, confermando quest’ultimo nell’idea che il padre stesso, come probabilmente quell’intera generazione di “un popolo dalla sorprendente cecità storica”, aveva moltissimo da nascondere e rimuovere, e spingendolo verso un’aperta ribellione (che avrebbe coinvolto anche la sfera religiosa, allontanandolo dal cattolicesimo) e verso forti crisi depressive. Il terzo trauma riguarderà l’insegnamento universitario: dopo aver scelto di iscriversi, come ricordavo poc’anzi, all’Università di Friburgo, Sebald si renderà subito conto del fatto che quasi tutti i suoi insegnanti erano stati in qualche modo compromessi con il nazismo, tema di cui non si poteva parlare e sul quale veniva anzi esercitata una sorta di censura preventiva.

W. G. Sebald

L’attualità di Sebald è conseguenza diretta di molte delle caratteristiche della sua scrittura. Va anzitutto sottolineato il tono malinconico che pervade le sue opere, tono che ben si confà al tema principale, l’importanza della memoria personale e collettiva. Come è stato osservato, oltre a essere degli emarginati, i suoi personaggi sono spesso inclini alla disperazione, se non oppressi da impulsi suicidi. Una seconda caratteristica è la predilezione per storie che abbiano quali protagonisti i rifiutati dalla storia, coloro che per motivi biografici o sociopolitici sono costretti all’esilio, all’emigrazione, alla scomparsa. Molti di questi rifugiati vengono presentati (anche se, come vedremo, nella realtà non lo erano quasi mai) come ebrei, scampati in qualche modo allo sterminio nazista. La terza caratteristica è il fatto che la narrativa di Sebald nasce anche come reazione, da un lato alla rimozione, da parte della generazione dei padri, dei crimini del nazionalsocialismo, e dall’altro alla parallela, anche se non equivalente, rimozione, da parte del mondo intero, di quel crimine contro l’umanità che è stato il bombardamento indiscriminato delle città tedesche, con l’uccisione di migliaia di civili. Un quarto tratto distintivo va visto nell’idea della perpetuazione della storia, che continua a manifestarsi nel presente anche quando la si vorrebbe ormai definitivamente archiviata. “Tutto vi giace alla rinfusa,” scrive appunto Sebald degli abissi della storia, “e, se si cala lo sguardo per arrivare al fondo, si è colti da un senso di orrore e di vertigine”, frase che peraltro riecheggia l’idea che dell’animo umano si era fatto Büchner nel Woyzeck. Il quinto è il fatto che questi motivi – la guerra, la persecuzione degli ebrei, le sofferenze dei civili –, tutti forti e ben delineati, si accompagnano a una cifra stilistica che fa di un’apparente impassibilità descrittiva la sua quintessenza. Il sesto, sempre a un livello stilistico, è la combinazione elegante, e in quegli anni ancora abbastanza inedita, di fiction e non-fiction, ovvero la commistione di narrazione pura, memoria, biografia, storia e letteratura di viaggio, con delle divagazioni anche in settori come la geografia o le scienze naturali da cui gli scrittori si tengono spesso fin troppo distanti. Qui forse emerge anche un punto di contatto con la scrittura saggistica di stampo accademico. Il suo stile, definito da lui stesso “ellittico” o “documentary fiction” (o ancora, seguendo la proposta dell’amico scrittore Michael Hamburger, “essayistic semi-fiction”) e basato su una deliberata cancellazione dei confini fra fatti reali e finzione, nascerebbe allora, nello scrittore già quarantacinquenne, per contrasto e per rivolta contro la secca referenzialità dei contributi accademici, di cui sembra che Sebald fosse stanco. Eppure, come notò non proprio a torto Marcel Reich-Ranicki, qualificandolo di Germanistenprosa (prosa da germanista), il suo stile, dall’andatura spesso cerimoniosa e solenne, prende le mosse proprio dal saggismo accademico.

Im Schwindel. Gefühle (Vertigini, edito in Italia da Adelphi come gli altri suoi libri), del 1990, è costituito da quattro racconti, due dei quali riguardanti rispettivamente un episodio nelle vite di Kafka e di Stendhal, in cui già si cristallizza lo stile volutamente disadorno ma ricco di dettagli nonché l’abitudine di accompagnare i suoi scritti con reperti fotografici (senza didascalie), la cui relazione con il testo non è sempre evidente e che danno al testo un’aura di veridicità in realtà tutta da verificare.

Anche nei quattro lunghi racconti di Die Ausgewanderten (Gli emigrati), del 1992, Sebald si basa su fonti storiche, presentandoci delle biografie se non del tutto immaginarie, quanto meno molto rielaborate, che hanno, almeno tangenzialmente, tutte qualcosa a che fare con le conseguenze dell’olocausto. Si può dire anzi che i quattro protagonisti ne siano delle vittime a scoppio ritardato. Ogni figura sembra però nasconderne un’altra, di cui nulla ci viene detto. Prendiamo l’ultimo racconto, quello che ruota intorno al personaggio di Max Ferber: anzitutto, la sua figura è basata su quella del pittore tedesco Frank Auerbach, ma la fuga dalla Germania nazista è invece un calco della storia vera vissuta da un amico di Sebald, Peter Jordan (la cui zia sarà peraltro per lo scrittore una fonte inesauribile di dettagli). Sebald opera dunque una fusione delle due entità, ottenendo così en passant una descrizione estremamente vivida della vita degli ebrei tedeschi, ma anche sfruttando, per il suo apparato iconografico, foto e documenti della famiglia di Jordan che attribuisce a quella del fittizio Ferber. Nel primo dei quattro racconti, lo scrittore inserisce foto appartenute alla famiglia del suo padrone di casa a Manchester, Philip Buckton, qui chiamato Selwyn, senza citare le proprie fonti e creando un effetto di realtà che si basa su una sostanziale (anche se forse veniale) falsificazione dei fatti. A Selwyn, Sebald attribuisce infatti un’origine e una storia che nulla hanno a che vedere con la storia vera di Buckton, il quale non era affatto un ebreo riparato in Inghilterra dalla Lituania già nel 1899. Sebald si appropria inoltre, rendendoli pubblici, di altri dettagli della vita e soprattutto della morte di Buckton che la famiglia avrebbe preferito mantenere riservati. Da notare che, nello stesso racconto, il personaggio della guida alpina Johannes Naegeli è chiaramente ricalcato sul nonno di Sebald, che aveva dato allo scrittore i primi rudimenti di filosofia della natura e che è al centro del suo primo romanzo, mai pubblicato. E ancora: nel secondo racconto il personaggio di Paul Bereyter è ispirato a un maestro elementare al quale Sebald era molto legato, Armin Müller, e del cui suicidio verrà a sapere dalla madre. Vittima del nazismo negli anni ’30, bandito dall’insegnamento perché ebreo per un quarto, ma abbastanza tedesco (i restanti tre quarti) per essere chiamato a combattere nella Wehrmacht per tutta la guerra, Müller – sebbene mai citato – diventa per Sebald una figura-chiave, quella della vittima che partecipa alla rimozione collettiva del crimine storico finendo per rimanerne schiacciato.

In Die Ringe des Saturn (Gli anelli di Saturno), del 1995, l’io narrante, che è un viandante – personaggio topico nella letteratura tedesca, al quale Sebald resta fedele in tutte le sue opere, imprimendogli, sulle orme di Robert Walser, una nuova freschezza –, si muove nello scenario della campagna inglese del Suffolk. Storico dilettante, il protagonista intrattiene i lettori su quanto vede, i manieri di campagna, gli scavi archeologici, i resti medievali, all’interno di un territorio intatto, mai messo a repentaglio da guerre e invasioni; ci sono alcune stimolanti digressioni, fra cui quella su una parte della vita di Joseph Conrad, l’ennesimo emigrato, qui “fotografato” quando era ancora il marinaio polacco Jozef Korzeniowski. La trattazione sommaria delle fonti d’ispirazione di Cuore di tenebra si accompagna ai viaggi di Conrad nel Congo belga, e di lì porta a un hotel di Bruxelles dove il viandante sosta e all’orribile monumento che commemora la battaglia di Waterloo, in un profluvio di associazioni mentali apparentemente inarrestabili che rendono ardua anche la mera definizione di un vero e proprio metodo narrativo. L’io narrante tende spesso a sdoppiarsi e ad assumere la personalità dei personaggi di volta in volta evocati, che prendono per così dire in mano la narrazione.

Segue Luftkrieg und Literatur (Storia naturale della distruzione), del 1999, forse il libro più polemico e controverso, ma anche incisivo, in cui Sebald affronta vari temi, dalla distruzione già menzionata delle città tedesche da parte degli alleati e dall’incapacità della letteratura di occuparsene fino a una critica feroce all’opera di Alfred Andersch, ambizioso campione della cosiddetta “emigrazione interna”, che Sebald riteneva in realtà un misero opportunista, prima compromesso con il nazismo e poi, nel dopoguerra, uno scrittore riciclato, opportunista e kitsch.

Il libro di maggior successo, anche per l’accoglienza ricevuta nel mondo anglosassone, sarà Austerlitz, del 2001, il cui protagonista Jacques Austerlitz è impegnato a rintracciare le proprie origini. Questa ricerca lo porterà a ripercorrere la storia dei Kindertransporte, ovvero le spedizioni di bambini ebrei fuori dai confini tedeschi che avvennero fin dal 1939, e poi a confrontarsi con l’olocausto e in particolare con il lager di Theresienstadt. Si scoprirà in seguito che gran parte delle esperienze narrate da Sebald sono basate, ma senza alcun riferimento esplicito, sul libro del 1998 Rosas Tochter (La figlia di Rosa, edito in Italia nel 1999 da Mursia), scritto da un’orfana ebrea, Susi Bechhöfer, che in un articolo sul Sunday Times non mancherà di accusare lo scrittore di plagio e di appropriazione indebita di memorie altrui.

A prescindere da prestiti e rielaborazioni, è stato detto a ragione che la lettura di Sebald disorienta, anche perché il lettore non si rende bene conto di cosa stia davvero leggendo e si chiede al tempo stesso se lo scrittore, fra tanti dettagli pure messi doviziosamente a disposizione, non gli stia nascondendo l’essenziale. Se è vero che l’approccio di Sebald lo ritroveremo poi, anche con notevoli differenze, in scrittori come Daniel Mendelsohn, Benjamín Labatut, Olga Tokarczuk o Jonathan Safran Foer, e da noi, per esempio, nell’opera di Filippo Tuena (che ha scritto fra l’altro la prefazione al volume di conversazioni con Sebald Il fantasma della memoria, edito da Treccani), va anche sottolineato come il Nostro sia stato il primo ad avventurarsi in quella terra incognita in cui sull’io narrante sembra gravare il principio d’indeterminazione della fisica moderna. Oppure, per trovare un altro parallelismo, si potrebbe ricorrere alla famosa scala del Tractatus wittgensteiniano, quella che deve essere rimossa dopo che la si è percorsa sino all’ultimo scalino. Anche in Sebald non sembrano esserci certezze, tutto appare come l’ombra di un’ombra, e non sarà certo l’io narrante a chiarirci le idee o a permetterci di sfuggire a un ordito che si fa vieppiù vischioso. Non è forse un caso che sia così difficile, a lettura avvenuta, ripercorrere i ragionamenti e le digressioni di Sebald, ricordare nei dettagli ciò che si è appena letto.

Le appropriazioni di Sebald hanno fatto molto discutere. Allorché si è ispirato a scrittori e filosofi come Kafka e Nabokov o il menzionato Wittgenstein, non è troppo difficile ritrovare l’origine delle citazioni, anche quando non siano dichiarate; altrove, tuttavia, Sebald ha anche saccheggiato foto, ritagli di giornale, verbali, biglietti ferroviari, diari, racconti e memorie, spesso già pubblicate, di scampati all’olocausto, senza citare le fonti e incorporando il tutto nei suoi scritti come se fossero documenti e ricordi dei suoi personaggi. Quanto al metodo, era uso interrogare la madre, al centro dei pettegolezzi del villaggio natale, e ricavarne informazioni che poi sfruttava senza alcuna remora, mettendola spesso in difficoltà con vicini e conoscenti. Sebald era convinto, del resto, che l’abbondanza dei dettagli creasse l’illusione della realtà, alla base della sua prosa, e che solo questo contasse. Ma quello che gli è stato rimproverato è in particolare il fatto di essersi appropriato, da scrittore tedesco e non ebreo, di testimonianze di ebrei, e di avere in qualche modo rischiato di dare un’immagine falsa e costruita di storie reali, alimentando involontariamente il negazionismo. Se Sebald fosse vissuto ancora qualche anno, sarebbe stato certamente interessante vedere come avrebbe affrontato la questione, se avrebbe ammesso e magari perfino teorizzato e rivendicato il carattere parassitario della letteratura. Che in fondo è sempre, per quanto la si possa basare su fatti reali e rendere verosimile, pura finzione.

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