Michela Di Renzo
Una storia inedita

La scacchiera

«Era cominciato tutto tre mesi prima quando la nonna Meri, ovvero la mamma di Fabio, era scivolata in bagno sbattendo la testa contro il lavandino. La signora di ottanta e passa anni aveva taciuto l’accaduto al figlio finché lui non aveva notato sul suo volto due lividi neri intorno agli occhi»

Le note iniziali della toccata e fuga di Bach in Do minore stavano risuonando in tutta la casa. “Signore, ti prego, fa’ che risponda” mormorò Patrizia affondando la testa dentro al cuscino e stringendolo intorno alle orecchie. Ma la musica continuava imperterrita a martellarle i timpani. “Che sia diventato sordo improvvisamente?” pensò alzandosi dal letto. Appena entrò in soggiorno la suoneria del cellulare di suo marito si zittò. Patrizia si guardò intorno e fu presa dallo sconforto: i cuscini del divano, che aveva fatto rivestire qualche mese prima, erano tutti sgualciti e dal bracciolo ciondolava fino al tappeto persiano, messo di sghimbescio, un’orrenda coperta di pile grigio; sulla ribaltina settecentesca che era stata di sua nonna, accanto alla scacchiera in alabastro, c’erano delle bucce di arancia e dei pezzetti di pane, i rimasugli di uno spuntino, e sul legno di ciliegio si intravedevano le impronte circolari lasciate da un bicchiere bagnato. “Sembra che in soggiorno sia passato lo tsunami” si disse “del resto è questo il termine giusto per descrivere quello che ci è capitato”.

Suo marito, Fabio, si affacciò sulla porta. “Come mai non hai risposto?” “Ero in cucina a prendere una tachipirina, mi è risalita la febbre”. “Mi sa che sta tornando anche a me, ho un gran mal di testa, mi rimetto a letto”. Era appena arrivata in camera che sentì ricominciare la musica di Bach, che questa volta però durò solo qualche secondo. Patrizia si infilò il termometro sotto l’ascella, entrò sotto le coperte e chiuse gli occhi. Fu proprio mentre il bip elettrico le comunicava che aveva la febbre a trentanove, che Fabio entrò in camera sospirando. Teneva le spalle inclinate verso il basso e le braccia ciondoloni lungo il tronco rendevano la sua figura ancora più massiccia. Suo marito dette un colpo di tosse per schiarirsi la voce prima di parlare. “Era l’ospedale, insistono per dimetterla, dicono che non ha niente di grave”. Sua moglie avvertì una vampata improvvisa di calore che le saliva al volto, come quelle che l’avevano tormentata durante la menopausa; col viso rosso fuoco si rizzò a sedere sul letto allontanando di scatto il piumone. “E te cosa hai risposto?” gli chiese fulminandolo con gli occhi. “Ho detto che abbiamo delle difficoltà” rispose Fabio fissando una delle icone appese sopra la testata; dallo sguardo sembra invocare l’aiuto della Madonna che vi era dipinta, l’unica che poteva risolvere la questione di cui stavano discutendo dalla mattina. “Quindi?” “Le stanno cercando un posto letto ma al momento non ce ne sono di disponibili” fece uscendo a capo basso di camera.

Patrizia prese il cellulare dal comodino e digitò alla svelta il numero di suo figlio Andrea. “Ci penserà lui a convincere suo padre una volta per tutte; bisogna essere irremovibili con questi medici del Pronto Soccorso”. Dopo diversi squilli subentrò la segreteria telefonica. “Strano. A meno che non sia al supermercato a fare la spesa per noi. Tra poco lo richiamo” si disse e si rimise sotto le coperte col telefono stretto in mano. Dopo pochi secondi lo sentì vibrare. “Pronto?” “Pronto mamma, non ho fatto in tempo a rispondere perché ero alla cassa a pagare”. “Lo immaginavo” disse Patrizia; per un attimo se lo vide davanti mentre chinava verso la cassiera la sua testa corvina, coi capelli ondulati. La ragazza avrebbe notato di sicuro il suo bel profilo greco.

“Ti sei dimenticata di ordinarmi qualcosa?” “No, tanto mangiamo poco”. Ci fu un attimo di silenzio. “Allora si tratta della nonna” “Preciso”. Patrizia avvertì una specie di sollievo, come una ventata di aria fresca, una sensazione che le capitava tutte le volte che percepiva una specie di telepatia tra lei e suo figlio. “Senti mamma, sto uscendo ora dal supermercato, ti richiamo tra cinque minuti quando sono in macchina”. “Va bene, a tra poco”.

Era cominciato tutto tre mesi prima quando la nonna Meri, ovvero la mamma di Fabio, era scivolata in bagno sbattendo la testa contro il lavandino. La signora di ottanta e passa anni aveva taciuto l’accaduto al figlio finché lui, andando a trovarla come al solito ogni giovedì pomeriggio, non aveva notato sul suo volto due lividi neri intorno agli occhi. “Mamma che ti è successo?” “Niente di grave”. “Come niente di grave? Sembri un procione”. “Passerà, stai tranquillo”. Fabio aveva alzato leggermente la voce. “Vuoi dirmi o no cosa è successo?” “Sono scivolata in bagno due giorni fa, non c’è bisogno che urli, come vedi sto bene” aveva risposto Meri guardandolo dritto in faccia con gli occhi azzurro ghiaccio che aveva anche suo figlio. Poi, scuotendo la sua chioma argentata ancora folta nonostante gli anni, era andata in cucina a preparare un caffè per entrambi. A Fabio era sembrato che camminasse meno spedita del solito e aveva subito chiamato il medico curante che gli aveva consigliato di portare la madre in ospedale. “Levati dalla testa che venga con te al Pronto Soccorso” aveva obiettato l’anziana signora “l’altro giorno c’è andata la signora Burrini, quella del piano di sotto, perché aveva due linee di febbre e l’hanno fatta aspettare più di dieci ore su una barella”. “Mamma per cortesia, non mi fare arrabbiare”. “Appunto, parliamo di altro”. Fabio aveva squadrato dalla testa ai piedi quella donna alta più della media per la sua generazione, dalle ossature robuste e il volto ancora bello, con il naso diritto e le labbra ben disegnate, di cui tutti dicevano che lui fosse il ritratto in versione maschile. Ma il carattere, quello forte e testardo, quello di certo lui non lo aveva ereditato. “Il dottore ha detto che con i farmaci che prendi è pericoloso battere il capo: potresti avere un’emorragia cerebrale”. “E starei bene così secondo te?” “Possibile che non si riesca a farti ragionare? Ora non vuoi farti portare ora in ospedale, ti ostini a voler vivere da sola…” “Siamo arrivati al punto” aveva fatto Meri interrompendo bruscamente la conversazione e puntando verso suo figlio il dito indice. “Credi che non sappia di chi è l’idea di mettermi in casa un’estranea?” “Senti mamma, facciamo un patto. Ora andiamo al Pronto Soccorso, facciamo degli accertamenti e se vanno bene non parliamo più di trovare qualcuno che venga ad aiutarti”. “A queste condizioni va bene” aveva replicato Meri; dopo aver trascorso tre ore seduta su una sedia scomoda della sala di attesa, l’anziana signora era stata sottoposta a una TAC che aveva mostrato un’emorragia cerebrale: l’avevano ricoverata ed era rimasta in ospedale una settimana.

Al ritorno a casa, la gioia che nonna Meri aveva provato una volta varcata la soglia sulla barella dell’ambulanza era venuta meno quando aveva intravisto, lungo il corridoio, una signora rotonda di mezza età, con una zazzera arancione e due palpebre viola che le incappucciavano gli occhi. “Questa deve essere la badante di cui mi ha parlato Fabio” aveva pensato irritata. Patrizia, che fino ad allora se ne era rimasta nascosta in cucina, era stata la prima ad affacciarsi sulla porta di camera dopo che i volontari l’avevano adagiata sul letto. “Signora mi dispiace non essere venuta a trovarla in ospedale, ma ora fanno passare solo un familiare”. “Lo so, lo so, Fabio me lo ha spiegato più volte, ancora non ho perso la memoria”. “I medici ci hanno sconsigliato di lasciarla sola una volta dimessa”. Patrizia aveva deglutito un po’ di saliva prima di proseguire. “Poi è stata immobile a letto diversi giorni, ha bisogno di qualcuno che l’aiuti, se non altro per andare in bagno”. “So anche questo” aveva replicato bruscamente Meri. Aveva appena finito di pronunciare la frase, che dietro sua nuora era comparsa la testa color carota. “Questa è Yarislava” aveva fatto Patrizia. “Chi?” aveva chiesto Meri aggrottando la fronte. “Ha un nome complicato è vero, può chiamarla semplicemente Yari”. “Come la tua macchina?” “No quella è Yaris, non Yari” aveva detto Patrizia girandosi in cerca di aiuto in direzione della porta, dove nel frattempo si era affacciato Fabio. “Piacera” aveva borbottato la badante. “Non parla nemmeno italiano?” “Mamma, lo parla; se qualche volta sbaglia la correggerai. Facevi la maestra no?” era intervenuto suo figlio. “Sono in pensione da trent’anni” aveva ribattuto Meri stizzita. “Resterà solo per qualche notte all’inizio” aveva proseguito Patrizia. “E dove dorme?” “In quella che era la mia camera” aveva risposto Fabio. Patrizia aveva notato solo allora che gli occhi di sua suocera, che erano sempre stati vivaci, erano diventati opachi e la fissavano spaesati. “L’emorragia cerebrale è stata una bella batosta. Speriamo bene”.

La verità era che Meri si era sentita esattamente come quando giocava a scacchi con suo marito e si ritrovava sempre con il proprio Re minacciato dalla Regina e dall’Alfiere avversari. Quando lui era morto, una settimana dopo essere andato in pensione, Meri non ce l’aveva fatta a sopportare la vista della scacchiera di alabastro che i colleghi gli avevano regalato per l’occasione e l’aveva data a Fabio; suo figlio non si era mai appassionato agli scacchi, mentre Andrea, suo nipote, aveva trascorso tanti pomeriggi della sua infanzia a giocare col nonno.

La Regina. Era così che aveva sempre chiamato dentro di sé sua nuora, anche se non l’aveva confidato a nessuno, nemmeno a suo marito che sicuramente avrebbe scosso il suo testone pelato in segno di disapprovazione. A Meri era bastato vederla la prima volta che Fabio l’aveva portata in casa. Bellina era bellina, è vero, con quel fisico magro, il volto ovale, gli occhi da cerbiatta e i denti bianchissimi, e non sfigurava accanto a suo figlio che era un discreto ragazzo, ma quell’aria altezzosa lei non l’aveva sopportata dal primo istante in cui l’aveva conosciuta. “Ma chi si crede di essere per guardami così? La Regina Elisabetta? Va bene che viene da una famiglia nobile del Sud, ma Fabio è pur sempre figlio di un direttore di banca e di una maestra”.

Questa volta intorno al letto ad assediarla ci si era messo anche un altro pezzo della scacchiera, che rassomigliava alla Torre, con quel fisico tozzo, senza stacco di vita, e al posto dei merli quella zazzera di un colore orrendo. “Va bene se avete deciso così, ora però vorrei riposare” aveva detto Meri scacciandoli dalla stanza con la mano dalla stanza. Una volta rimasta sola aveva chiuso gli occhi, girando la testa verso la finestra, perché nessuno vedesse le lacrime che le spuntavano da sotto le palpebre.  

“Mi sembra che sia andata meglio del previsto” affermò Patrizia a suo marito mentre entravano in ascensore. “Davvero, quando gliene avevo parlato in ospedale ha fatto un sacco di storie. Si vede che in questi giorni ci ha ripensato anche lei”. “Certo dovrai passare spesso a controllare che cosa fa questa Yarislava, anche se mi è piaciuta subito appena l’ho vista, sembra proprio una brava donna”. “A me piaceva di più la cugina che l’ha accompagnata, peccato che avesse già un lavoro” “L’avevo capito” fece Patrizia rivolgendo a Fabio uno sguardo di disapprovazione. Appena quella signora procace aveva varcato la soglia di casa di sua suocera e Fabio alle sue spalle con voce squillante aveva detto: “Prego entri”, Patrizia si era sentita gelare. “Non sarà mica questa la badante di cui ci hanno parlato quelli della Misericordia?” Suo marito continuava a essere un uomo piacente, nonostante fosse ingrassato rispetto a quando si erano conosciuti, a differenza di lei che era rinsecchita e si era riempita di rughe. Per fortuna la quarantenne formosa che sembrava ricambiare la simpatia di Fabio sorridendogli in continuazione, una volta entrata nel corridoio aveva detto in un italiano perfetto: “Sono la cugina di Yarislava, l’ho accompagnata perché parla male italiano”. Patrizia tirando un sospiro di sollievo aveva replicato: “Non ti preoccupare, noi vogliamo fare tutto in regola e darle quello che le spetta”. Yarislava si era rivelata una donna anonima; e il fatto che parlasse poco e male la lingua italiana sarebbe stato un vantaggio per la signora Meri, abituata a vivere sola da anni.

Il rapporto tra la badante e nonna Meri era durato tre mesi, senza grossi attriti. Appena Meri era stata meglio Yarislava era tornata a dormire nella casa che condivideva con la cugina, continuando ad aiutare l’anziana signora durante il giorno. “Lei e Yari hanno raggiunto un buon equilibrio” aveva commentato Patrizia a fine novembre, una settimana esatta prima che l’ucraina le telefonasse dicendole che aveva la febbre alta e la tosse; il medico le aveva richiesto il tampone per il covid, tampone che il giorno dopo risultò essere positivo. Fu quello l’inizio dello tsunami.

“Ti rendi conto di quello che stai rischiando?” disse Patrizia a suo marito davanti alla soglia di casa. Fabio alzò gli occhi al cielo prima di indossare il giaccone che teneva ripiegato sul braccio destro. “Certo che me ne rendo conto ma non posso lasciarla sola. Lo sai anche te che non è più autosufficiente. E chissà chi ci va ad aiutare una persona anziana che ha avuto contatti col covid”. “La casa è tutta contaminata dal virus. È una follia”. “Mi sono messo l’FFP2, le farò indossare la mascherina chirurgica, spalancherò le finestre, cercherò di pulire il più possibile” rispose lui aprendo la porta. “Ma è rischioso lo stesso, possibile che tu non lo capisca?” “Patrizia io non posso fare diversamente, è mia madre”. “Avremmo dovuto metterla in una casa di riposo quando è uscita dall’ospedale, ora non ci troveremmo in questa situazione, invece te hai voluto fare di testa tua”. “Come potevo fare una cosa del genere? Con quanti focolai ci sono stati nelle RSA…” “Ora il focolaio ce lo abbiamo in casa, infatti”. “Senti ora basta, capisco che tu non voglia rischiare niente perché non è tua madre ma la mia, ma io ci vado e finché il pericolo non è passato resto a dormire lì. Può darsi che Yari non l’abbia nemmeno contagiata”. Fabio si chiuse la porta alle spalle senza dare a sua moglie il tempo di replicare. Patrizia rimase un attimo immobile nell’ingresso, poi si girò indietro e andò nel soggiorno. Provò a sedersi sul divano e a distrarsi leggendo qualcosa, ma era troppo arrabbiata per concentrarsi su un libro. Iniziò a camminare avanti e indietro per l’ampio salone, una tecnica che spesso riusciva a calmarla. Questa volta però il metodo non sembrava funzionare. Quando si vide davanti l’immagine delle bare caricate sui camion che si dirigevano da Bergamo verso sud e il corpo di Fabio dentro una di quelle, avvertì un’oppressione al petto così forte da costringerla a rimettersi seduta. “L’aria fresca mi farà stare meglio” si disse alzandosi per andare ad aprire la finestra. L’occhio le cadde sulla scacchiera di alabastro. “Non le sa mai dire di no su niente, come questa scacchiera. Lei non la voleva e l’ha data a noi, che manco giochiamo”. Patrizia la prese con entrambe le mani dalla ribaltina su cui era appoggiata e la scaraventò a terra. Si sentì un forte rumore metallico con un rimbombo, mentre i pezzi si disperdevano sul pavimento e la scacchiera si spaccava in quattro pezzi. L’oppressione che Patrizia provava al petto scomparve e riprese a camminare in su e in giù lungo l’ampio soggiorno; ogni volta che avvertiva di nuovo il fastidio al torace cercava con lo sguardo un pezzo degli scacchi sul pavimento e gli tirava un calcio.

“Me lo dovevo immaginare che andava a finire così, l’ho sentito dal primo momento in cui l’ho vista” pensò. Si ricordava bene in che modo glaciale l’aveva accolta nonna Meri la prima volta che si erano incontrate. Marcella, una studentessa meridionale con cui divideva la casa, una ragazza sveglia, in tutti i sensi, l’aveva avvisata: “Preparati, di sicuro la mamma di Fabio non sarà molto cordiale, i senesi sono razzisti”. “Ma lei è nata a Pisa”. “Che vuol dire? Per tutti i toscani noi siamo terroni”. Patrizia ricordava bene la morsa allo stomaco che l’aveva tormentata per tutto il tempo che era stata seduta su una di quelle scomode sedie del salotto dei genitori di Fabio, mentre faceva finta di apprezzare quei pasticcini rinseccoliti, i ricciarelli, comprati per l’occasione, che non avevano niente a che spartire con i dolcetti di pasta reale della sua Puglia. Se solo non fosse stata costretta ad andarsene dalla sua Regione. “Non capisco come mai tu non possa studiare Giurisprudenza a Bari che è a pochi chilometri anziché andare fino a Siena” le aveva detto più volte suo padre. “Perché è una delle università più antiche di Europa e ha un’ottima reputazione” aveva ripetuto Patrizia. La verità era che voleva scappare il più lontano possibile dalla donna che lui aveva sposato tre mesi dopo la morte di sua madre. Nella sua mente si era immaginata l’incontro con Meri come un abbraccio caloroso da parte di entrambe, seguito dall’invito a considerare lei e suo marito come la sua nuova famiglia. Niente di più lontano da quanto era accaduto, anche il padre di Fabio era stato cordiale. Quando era tornata a casa aveva dovuto dare ragione a Marcella. “Trovati un altro, un meridionale come noi”. Ma lei non aveva seguito il suo consiglio.

La prima a mettersi a letto con la febbre fu proprio lei, Patrizia. La mattina dopo che Fabio era andato a casa di sua madre, raccolse i pezzi degli scacchi dal pavimento del soggiorno e li esaminò a uno a uno per decidere quale fosse da buttare e quale no; quasi tutti però si erano spaccati in più parti e finirono nel sacco della spazzatura. “Dirò a Fabio che la scacchiera mi è scivolata di mano mentre la spostavo per pulirla”. Là dove era sbattuta contro il parquet era comparsa una incrinatura grigia scura. “Pazienza, lo farò lucidare” si disse anche se, per non trovarsi quella crepa davanti agli occhi, la coprì col tappeto persiano. Quando ebbe finito di mettere a posto le venne un mal di testa tremendo, come non le capitava dai tempi dell’Università: allora dopo ogni esame aveva un appuntamento fisso con l’emicrania. Andrea la rassicurò: “E’ sicuramente dovuto alla discussione che hai avuto ieri sera col babbo”. “Lo penso anche io, comunque te non azzardarti a entrare in questa casa o in quella di tua nonna”. “Mamma se hai bisogno di qualunque cosa chiamami”. Due ore dopo suo figlio le aveva lasciato davanti alla porta di casa una busta della farmacia con dentro la tachipirina e un termometro elettronico che appena usato le comunicò che aveva la febbre alta, mentre Meri e Fabio stavano benissimo. Loro due si ammalarono il giorno dopo quando la signora ottantenne iniziò anche a tossire. Il medico vista l’età decise di inviarla in ospedale. Meri non era d’accordo ovviamente ma non ebbe il coraggio di discutere di nuovo con suo figlio; di fronte a quegli uomini con indosso le tute bianche e la visiera di plastica che la caricavano sulla barella e le attaccavano l’ossigeno, si limitò a storcere la bocca e a borbottare più volte: “Torre assassina”, due parole a cui nessuno prestò attenzione, nemmeno Fabio che non le sentì sia perché Meri le aveva pronunciate a bassa voce, sia perché aveva lo sguardo rivolto altrove, per nascondere le lacrime che gli inumidivano gli occhi al pensiero che forse non avrebbe più rivisto sua madre.

Il cellulare sul petto di Patrizia iniziò a vibrare. “Pronto?” “Mamma sono io. Eccomi. Sono venuto con la macchina sotto casa, affacciati alla finestra che almeno ci vediamo”. “Certo”. Patrizia si alzò dal letto, si mise alla svelta un maglione sulle spalle e aprì una delle due ante. In fondo al portone vide Andrea, un giovane alto e dall’ossatura robusta come suo padre ma scuro di capelli e dai lineamenti regolari come lei. Ogni volta che Patrizia si trovava davanti suo figlio pensava che quello che aveva dovuto soffrire con la morte di sua madre e la fuga da casa per via della matrigna era stato ampiamente ricompensato dall’aver messo al mondo Andrea. “Ecco la gioia più grande della mia vita” pensò agitando la mano in segno di saluto verso di lui, mentre le brillavano gli occhi. “Come stai?” “Benino anche se ho di nuovo la febbre, comunque respiro perfettamente. Secondo il medico il decorso è regolare”. “E il babbo?” “Lo stesso per fortuna.” “Non fosse mai che lo contagio dalla finestra” si disse mettendo dentro la testa e chiudendo l’anta, ma non si allontanò in modo che continuassero a vedersi attraverso il vetro. “Abbiamo un problema con la nonna invece” proseguì. Andrea rimase un attimo in silenzio, poi con la voce meno acuta del solito, perché era quella la sua tonalità abituale, con un timbro nasale che lo faceva sembrare più un adolescente che un uomo di trent’anni, chiese: “Si è aggravata?” “No, no, anzi”. “Come?” “All’ospedale le hanno fatto diversi accertamenti e vanno tutti bene.” “Meglio così allora”. “Insomma. Secondo loro dovrebbe tornare a casa perché non ha nessun motivo per ricoverarsi. La vogliono dimettere” replicò calcando bene la parola “loro”, “ma lei a casa da sola non ci può stare”. “E cosa ti propongono?” “Di tenerla qui con noi finché la badante non guarisce, tanto ormai abbiamo tutti il covid”. “Mi sembra la cosa più sensata”. La risposta di Andrea la colpì come uno schiaffo e la stordì al punto che dovette farsela dire due volte. “Cosa hai detto?” gli chiese avvicinandosi di nuovo al vetro e guardandolo dritto in faccia. “Ho detto che mi sembra la cosa più sensata” ripeté suo figlio sollevando la testa verso l’alto. “Ma io e la nonna Meri non abbiamo nessuna confidenza, e in questo momento io e tuo padre siamo anche malati…” “Mamma ma questa è una situazione eccezionale. E la nonna è la nonna, l’unica nonna che ho avuto, perché nonna Pina…” disse sollevando le spalle. “Che c’entra Nonna Pina?” fece Patrizia con la voce stridula, in falsetto, perché tutte le volte che sentiva chiamare così la sua matrigna avvertiva un nodo alla gola. “Senti mamma mi sembra un’ottima idea che nonna Meri venga da voi.” Patrizia stette zitta. “E poi mamma, mettiti nei suoi panni, domani potresti esserci te al posto suo, te vecchia e sola…” “Non capiterà stai tranquillo, io muoio prima, come ha fatto mia madre”. Non era vero, perché a differenza di sua madre lei aveva già avuto il tempo di vedere suo figlio laurearsi. Riattaccò bruscamente e si rimise a letto.

Dopo pochi minuti sentì suonare di nuovo la musica di Bach a tutto volume. Si alzò lentamente dal letto e andò in soggiorno. Quando entrò nella stanza, Fabio stava dicendo: “Abbiamo dei problemi gliel’ho già detto. Comunque voi siete sicuri che stia bene e non abbia assolutamente bisogno dell’ossigeno?” “E’ di nuovo l’ospedale” pensò Patrizia avvicinandosi alla ribaltina settecentesca su cui aveva appoggiato i pezzi degli scacchi superstiti al volo per terra, ovvero un paio di pedoni, un cavallo e un alfiere. All’improvviso vide qualcosa di scuro ai piedi del mobile. Quando si chinò riconobbe la Regina Nera. La prese con la mano e sentì il freddo dell’alabastro contro il suo palmo. “Che strano, è rimasta completamente intatta” pensò sollevandola e guardandola attentamente; le venne in mente che assomigliava a sua suocera, perché era glaciale come lei, ma anche così forte da sconfiggere il covid. “E se avesse ragione Andrea?”. Si vide davanti l’immagine di suo figlio bambino seduto davanti alla scacchiera con suo nonno. “Tuo figlio è intelligente, diventa ogni volta più bravo” le diceva Meri con quel suo modo di fare sostenuto quando Patrizia andava a riprenderlo a fine pomeriggio e Andrea faceva un sacco di storie per finire la partita nonostante fosse l’ora di tornare a casa. “Digli che verrà a stare da noi” disse a voce alta a suo marito senza guardarlo negli occhi. “Scusi, scusi un attimo” fece Fabio balbettando. “Digli che verrà a stare da noi finché non saremo tutti guariti” ripeté Patrizia continuando a stringere nella mano destra la Regina e alzando la voce. “Allora dimettetela pure, la prendiamo in casa noi” fece subito suo marito con voce squillante, rivolgendosi al medico all’altro capo del telefono. Patrizia posò il pezzo sulla ribaltina e andò in cucina a prendere una tachipirina. “C’è da preparare la camera che era di Andrea per lei. Mi hanno fatto proprio scacco matto” pensò.

Nonna Meri arrivò a casa dopo un’oretta. “Accidenti che rapidità, se ne volevano liberare il prima possibile” si disse Patrizia quando sentì suonare il campanello e vide dalla finestra di camera l’ambulanza posteggiata davanti al portone. Quando i due volontari entrarono nel corridoio, a Patrizia parve che l’anziana signora adagiata sulla barella fosse diventata molto più piccola. “Domani verrete contattati dai medici del territorio che verranno a valutarla” disse uno di loro dopo averla posata sul letto. “Sì lo sappiamo, ormai conosciamo la procedura purtroppo, visto che siamo tutti ammalati” rispose Fabio accompagnandoli verso la porta di casa. Patrizia si avvicinò alla suocera. “Signora Meri come sta?” “Un po’ stordita dopo questo trambusto.” Meri si guardò intorno spaesata. “Questa è la camera di…” “Di Andrea”. “Ah ecco, mi pareva. Quanto disturbo per colpa mia”. Patrizia si mise seduta sul letto e la guardò meglio mentre pronunciava quelle parole, a testa bassa, con le guance cascanti leggermente arrossate, le palpebre rugose socchiuse, gli occhi opachi, le labbra appena accennate sotto una miriade di rughe e un tremolio della testa che non aveva mai notato prima. Le tolse le ciabatte e l’aiutò a entrare sotto le coperte. “Vuole mangiare qualcosa prima di dormire?” “No no, sono sfinita, voglio solo riposare”. Nonna Meri tirò fuori la sua mano ossuta da sotto le lenzuola e prese quella della nuora, che sussultò a quel contatto che emanava calore. Patrizia si ritrovò per un attimo adolescente seduta davanti a sua madre che le diceva stringendo tra le sue mani bollenti quella di sua figlia: “Occupati te di tuo padre fino a quando non torno a casa mi raccomando”. Da allora lei non l’aveva più rivista perché dopo due giorni di ospedale l’infezione si era estesa dai polmoni al cervello e a casa non ci era più tornata. “Grazie” mormorò nonna Meri “grazie di tutto”. Patrizia ritirò la mano e si alzò in piedi. Se sua madre fosse sopravvissuta ora avrebbe avuto la stessa età di sua suocera. Arrivata sulla soglia di camera, si girò indietro verso Meri e fece dolcemente: “Lascio la porta aperta, se stanotte ha bisogno di qualcosa chiami mi raccomando, io sono qui accanto”. Poi tornò in soggiorno per mettere un po’ in ordine. Mentre aggiustava i cuscini del divano guardò verso la ribaltina e disse a Fabio: “Appena siamo guariti dobbiamo comprare un’altra scacchiera. Non ci stava male lì sopra”.


Le fotografie sono di Roberto Cavallini

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