Giuseppe Grattacaso
Gli auguri di Succedeoggi

Il mondo che farà

L’anno prossimo non sarà tanto migliore di quello che si sta concludendo, in fondo il mondo è questo, e non può cambiare nel giro di un anno. Ma dobbiamo sperare, anzi essere in grado di continuare ad alimentare l’attesa, e continuare ad attendere ogni giorno, giorno dopo giorno

Il mondo è questo. Alluvioni, terremoti, troppo caldo, freddo insopportabile, il virus che non ci abbandona, la variante Delta, Omicron. La violenza, la stupidità, il fascismo, la terra è piatta. Il mondo è questo. I fiori, i tigli, l’odore dei limoni, il sapore della menta, le cime delle montagne, il mare d’inverno, il mare sempre. La gentilezza, la felicità, la speranza.

Il mondo che farà, quello in cui ci ritroveremo a partire dall’alba del primo giorno del nuovo anno, sarà un po’ peggiore e di un tanto anche migliore di quello in cui abbiamo vissuto nell’anno duemilaventuno. Ci scosteremo di un briciolo, appena un granello, potrebbe darsi solo una parvenza, di cui chissà se ci accorgeremo, ma a cui, almeno per un po’, resteremo aggrappati.

Il conto alla rovescia, questa volta, la rincorsa verso l’ora zero, con il bicchiere tra le mani e il sorriso prestampato della serie bisogna crederci, ci troverà meno sicuri, meno in compagnia, meno abbracciati, meno assembrati, può darsi più brilli, più traballanti.

La colpa delle nostre disgrazie più recenti, del pandemonio pandemico, non era attribuibile al 2020, con quel tanto di smargiassa bisestilità che si portava addosso (2773 ab Urbe Condita, se volete, ma sempre bisestile), non era quel numero che portava disastri, non più di tanto almeno. Il 2021 ha replicato le sfortune e, come si conviene agli anni dopo, ha cercato di fare meglio cioè peggio. Non accadde diversamente un secolo fa: al terribile 1917 (niente male come numero, ma non era bisestile), la disfatta di Caporetto tanto per rimanere in ambito italiano, trecentocinquantamila tra morti, feriti, dispersi e prigionieri, fece seguito il 1918 con l’inizio dell’epidemia di influenza spagnola, oltre venti milioni di morti (ma probabilmente almeno quattro volte tanti) fino al 1920, anno bisestile, quando il fenomeno si affievolì.

Dunque il 31 dicembre non avremo nemmeno la possibilità, così tanto appagante, di prendercela con un anno venuto fuori male, difettato, geneticamente danneggiato.

Il mondo è questo, non è buono né cattivo, è fatto così. È sempre mondo, se ne frega, è nella natura delle cose, nei fattori ereditari dei mondi. Forse, prima dell’irresponsabile 2020, ci eravamo solo illusi, più che in altre epoche, di possederlo, il mondo, di dominarlo, di ridurlo alla ragione. E allora giù a festeggiare, a cercare di ridere di tutto, a consumare anche quello che sarebbe stato meglio conservare o solo dimenticare, a illuderci che la felicità consista sempre nell’oltrepassare la riga, il limite di velocità, il confine. Almeno era ed è così per noi, i fortunati, i più civili e progrediti, donne e uomini dell’Occidente, chissà poi occidente di dove, chissà poi come ci chiamano gli orientali. Abbiamo creduto di aver risolto ogni cosa, o che ogni ostacolo fosse risolvibile, senza che ci assalisse, nel merito, nessun dubbio. Nessuna imperfezione nel sistema, che invece sulle imperfezioni è diventato grande e senza imperfezioni muore. Ci è mancata la capacità di dubitare e prima ancora di interrogarci.

«Non vi piacerebb’egli che l’anno nuovo fosse come qualcuno di questi ultimi?» chiede il volitivo Passeggere leopardiano al conciliante Venditore di Almanacchi. Basta una domanda per cominciare a porsene di nuove, per riprendere a dubitare. Abbiamo creduto di avere la risposta a ogni cosa e dunque, per questo, rivendicare il diritto di dirci felici.

No, non ci piacerebbe, è la risposta di tutti. In fondo, dobbiamo credere sia possibile qualcosa di nuovo e di più bello, perché «la somma felicità possibile dell’uomo in questo mondo, è quando egli vive quietamente nel suo stato con una speranza riposata e certa di un avvenire molto migliore». È sempre Leopardi a ricordarcelo, questa volta dalle pagine dello Zibaldone, e ci dice anche che «il primitivo e proprio significato di spes non fu già lo sperare, ma l’aspettare indeterminatamente al bene o al male».

Insomma l’anno prossimo non sarà tanto migliore di quello che si sta concludendo, in fondo il mondo è questo, e non può cambiare nel giro di un anno. Ma dobbiamo sperare, anzi essere in grado di continuare ad alimentare l’attesa, e continuare ad attendere ogni giorno, giorno dopo giorno. “Quietamente”, ma vivere nell’attesa. L’augurio è che dentro di noi ci sia sempre l’aspettativa di qualcosa di nuovo, che non sia tanto, non qualcosa di troppo manifesto e sorprendente, anche solo un’inezia, un refolo, una bagattella, ma che esista la percezione della prospettiva, sapendo che attendere significa anche sostare e che l’attesa a volte coincide con la sosta e non con la corsa e con l’affanno. E siccome sappiamo che l’anno passato e anche il precedente, e anche l’anno di venti anni fa, non erano brutti e non erano belli, ma erano così, l’augurio è anche quello di riuscire a conservare – un giorno un dettaglio un affetto un’amicizia un abbraccio una gentilezza – qualcosa di bello, che il vecchio anno ci ha permesso di vivere.

«Quella vita ch’è una cosa bella, non è la vita che si conosce, ma quella che non si conosce; non è la vita passata, ma la futura. Coll’anno nuovo, il caso comincerà a trattar bene voi e me e tutti gli altri, e si principierà la vita felice. Non è vero?».


La fotografia accanto al titolo è di Roberto Cavallini

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