Arturo Belluardo
Una biografia dell'attrice

Il fascino di Jeanne

Lisa Ginzburg insegue la vita e il mito di Jeanne Moreau raccontando in modo mirabile la sua inafferrabilità, il suo desiderio di solitudine, l’autonomia, l’infotografabilità, la determinazione, la fisicità, il suo disincanto verso la passione

Da bambino io ero innamorato di Brigitte Bardot. Da quando avevo visto La ragazza del peccato ed ero rimasto impietrito come Jean Gabin di fronte all’erotismo sfacciato che prorompeva dal corpo di BèBè, dal broncio di monella bionda. Non mi ero perso uno dei film della rassegna che Claudio G. Fava le aveva dedicato il lunedì sera. E la mia devozione si confermava e cresceva pellicola dopo pellicola. Finché non trasmisero Viva Maria!, dove la Bardot duettava con lei, Jeanne Moreau.

La bocca piegata all’ingiù, le lunghe ciglia, le orecchie grandi e perfette. E uno sguardo che attraversava lo schermo, ti entrava in bocca, ti incastrava il velopendulo all’epiglottide, strozzandoti il respiro. Avevo scoperto la sensualità: mentre la Bardot faceva la scimmietta capricciosa sul palco di un teatrino messicano mettendo a nudo la spalla in un parodistico strip-tease, io ero incollato al lato destro del televisore, in attesa dei primi piani su Jeanne.

Da quel momento fu amore imperituro, addio Brigitte, avrei sognato solo Jeanne.

Da allora e per sempre. Non mi perdevo un suo film, che fossero in televisione o proiettati allo scalcinato cineclub La Moviola di Siracusa, dove mi rifugiavo, adolescente miope e brufoloso, quasi ogni pomeriggio, spesso da solo in sala, con una cartocciata di arancine e sfoglie del Bar Tunisi.

Quando diedero Jules e Jim, quando Jeanne si mise a cantare Le tourbillon de la vie, quando cantilenò la sua voce infantile e screziata di sesso, fu l’unica volta in cui l’arancina mi rimase in mano a mezza bocca, il sugo colò lungo la mano, i piselli rotolarono sulla tuta con l’elastico e io neanche me ne accorsi.

Uscii dal cinema canticchiando in un grammelot unto e inventato (non conosco il francese), e con una grande consolazione: se Jeanne Moreau si era potuta innamorare di due babbasunazzi come Jules e Jim, anche io avevo qualche speranza.

È con complice stupore che ho ritrovato la stessa identica folgorazione nelle prime pagine del libro che Lisa Ginzburg ha dedicato alla divina Jeanne (Jeanne Moreau – Giulio Perrone editore – € 15) per la collana Mosche d’oro (biografie di grandi donne, affidate alla penna di scrittrici).

Lisa Ginzburg si trovava al Filmstudio di Trastevere, anche lei di pomeriggio, anche lei adolescente, anche lei sola: «Una volta uscita dal cinema i passi per tornare a casa, al di là del Tevere, li ricordo leggeri, quasi di danza, la mia non era solo gioia per esser stata spettatrice di “Jules e Jim”, vicenda di una grande amicizia amorosa e di un bellissimo amore amicale (entrambi per di più a tre, senza l’asfissia del binomio). A darmi quelle ali ai piedi era stata la protagonista, Jeanne Moreau/Catherine. Il viso luminoso, i modi: l’autorevolezza del suo fascino, l’immediatezza della sua vitalità; la fluttuante, meravigliosa naturalezza dei sempre mutevoli umori. Una creatura capricciosa senza però mai risultare noiosa, volubile ma sempre sincera; enormemente presa da sé, eppure attentissima agli altri. Non era soltanto una grande attrice e una donna di assoluta bellezza e malia quella Jeanne/Catherine della quale per due ore avevo seguito l’avventura; anche, e sempre più lo sarebbe stata, un modello di femminilità da seguire e inseguire».

La Ginzburg rivedrà il film infinite volte e la figura di Jeanne continuerà «a brillare in tutto il suo fulgore come un faro. Come un faro indicandomi una strada, un femminile possibile: felice, libero, non ferito o recriminatorio o lamentoso». E la luce di questo faro sciabola per tutto il libro, ponendo sempre in relazione ispiratrice, confermativa, la scrittrice e la diva.

La storia che la Ginzburg dipana è appena sequenziale, il tocco giusto, il quanto basta del sale che la Moreau, chef e figlia di chef, sapeva dosare nei suoi piatti sublimi: adorava cucinare, cucinava per i set lavorava, intrecciava a tavola rapporti di fedeltà amicale, di seduzione temporanea. Lisa Ginzburg preferisce lavorare sull’anticipazione, racconta la vita di Jeanne, ma quando ne sfiora un aspetto, lo dipana, lo paragona, se ne fa guidare, come se, rovesciata dell’acqua sul tavolo di scrittura, una mano invisibile la costringesse ad allargare con il dito la goccia recuperabile fino a impregnare l’intera umida pagina.

E lavora, Lisa, su testimonianze, su reperti, scene di film, stralci di interviste, intere canzoni, e foto. Tante foto, che ha l’arguzia di raccontarci con la tecnica barthesiana de La camera chiara, non le mostra mai, ma ce le descrive con una grande sapienza narrativa, misurata e sentimentale, attenta a ogni mezzo sorriso, a ogni increspatura di quelle rughe che Jeanne indossa con eleganza suprema, facendone strumento di seduzione.

Come quando appare cinquantaquattrenne in Querelle de Brest di Fassbinder ed «esprime (…) l’affievolirsi del desiderio fisico: (…) la traccia di libido che permane nella fase matura della vita di una donna, la potenza di eros che sopravvive allo sbiadire della freschezza fisica».E che raggiunge il suo culmine quando Moreau canta “Each man kills the thing he loves” e il cuore ci si pianta dietro lo sterno, crocifisso dal melange di erotismo e tristezza, di disincanto e desiderio.

Sono bellissime le pagine dell’attrice che vengono sfogliate rapidamente, con una penna ammirata e commossa: l’adolescenza a Pigalle, il rapporto conflittuale con il padre che la schiaffeggia via da casa perché vuole fare l’attrice, le puttane che la ospitano e si prendono cura di lei;  la relazione imperitura con l’omosessuale Pierre Cardin; l’amore controverso con Louis Malle, che confonde la Jeanne intima e quella filmata, ossessionato dalla gelosia per il doppio, per quella donna che svela sullo schermo l’intimità di gesti che appartengono solo a lui (e che pure ci regala, in Ascensore per il patibolo, una delle scene più belle della storia del cinema, la ricerca affannosa e disperata dell’amante per le vie parigine anonime e livide di pioggia, dove la Moreau ci trasmette l’angoscia con curvature di spalle, di ciglia, di bocca, dove sembra inciampare sulle note strazianti di Miles Davis).

E i volti di Jeanne Moreau vengono scheggiati con pietra d’ossidiana, leggera ma tagliente, la sua inafferrabilità, il suo desiderio di solitudine, l’autonomia, l’infotografabilità, la determinazione, la fisicità, il suo disincanto verso la passione, che è forse l’aspetto che a Ginzburg interessa di più approfondire: «Un po’ come per la Lysiane di Querelle: di ogni suo amore, di ogni esultanza del corpo, Jeanne è come trattenesse una memoria, sapiente, sottile, filtrata attraverso la sua stessa sensualità; ora però da quei fervori mantenendosi a lato, al riparo, proteggendosi dal passare del tempo, schermata dietro la sponda sicura della propria nostalgia. Memore, senza troppi rimpianti, della passione per come c’era e non è più necessario ci sia nella vita di ogni giorno. Uno stato d’animo che collima perfettamente con quello descritto dalla serva Zerlina nel monologo/racconto di Hermann Broch, quel “Récit de la servante Zerline” che la stessa Jeanne Moreau reciterà. (…) Nelle parole di Zerlina: “Anche il godimento è diventato per me uno spazio asettico, e se pure conservo della gratitudine per questo elemento della vita, i nomi e i tratti del volto che hanno significato per me il piacere, e anche l’amore, sempre più si allontanano da me e scompaiono, e la mia gratitudine si fa di una trasparenza di vetro e non possiede più alcun contenuto”».

Io quello spettacolo andai a vederlo al Teatro Quirino a Roma, avrò avuto poco meno di trent’anni: ricordo una luce di taglio filtrare dorata dalle persiane, Jeanne quasi immobile, sbucciava soltanto una mela e la sua voce di bambina arrochita che mi scanalava le vertebre, mi catturava il corpo. Del testo non avevo compreso quasi nulla, me ne accorsi quando comprai il libro di Broch, ma la Moreau mi si era di nuovo scolpita nel cuore. Non andai a salutarla in camerino, a vederla da vicino, a respirarne l’odore. Non avrei saputo cosa dirle. Non conosco il francese.

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