Danilo Maestosi
Al Garage dell'Auditorium di Roma

Icaro e Batman

Il nuovo spazio espositivo nei sotterranei della "città della musica" ospita una grande, spettacolare antologica di Adrian Tranquilli. Il mondo dei fumetti, con i suoi riferimenti all'immaginario popolare, dialoga con quello dei miti: un gioco di rimandi tra passato e presente

Giusta l’idea della direzione di Musica per Roma di trasformare in palcoscenico permanente di eventi artistici l’intero primo piano del garage sotterraneo dell’Auditorium. Era uno spazio di servizio in disarmo, visto che le aree all’aperto circostanti erano sufficienti ad assorbire le macchine in sosta dei frequentatori. Da qualche mese parzialmente collaudato per questa sua nuova funzione con una serie di piccole mostre di fotografia, diventa con questa strategica trasformazione un fascinoso palazzo d’Esposizione e un’attrazione in più per l’intera area dell’Auditorium e per il pubblico variegato che ne segue i programmi.

Un non luogo, un guscio neutro, una rimessa di macchine, una ribalta da inventare ogni volta, unica a Roma, per l’assenza di vincoli architettonici e per ampiezza – mille metri quadrati – perfetta per ospitare opere e creatori d’arte contemporanea, sempre più allenati ad arricchire di effetti scenografici i loro lavori e a dilatarne gli echi sconfinando in altre discipline parallele. Da questa intuizione è generata la scelta di inaugurare e collaudare questa nuova vocazione, accogliendo il progetto di una retrospettiva di forte impatto visivo, presentato attraverso il suo curatore Antonello Tolve, da un artista italiano di prestigio internazionale come Adrian Tranquilli, 55anni, romano, trent’anni di carriera e di incursioni nell’immaginario della cultura di massa e nell’universo dei fumetti made in Usa. Gettonate dal pubblico giovane, dal mercato dei collezionisti meno ancorati agli investimenti sulla tradizione, e dalla critica più aggiornata alle mode.

Il manifesto che ne declama il titolo An unguarded moment (Un momento incustodito), ne segnala la durata, in cartellone fino al 6 marzo, ne indica la sede, il garage dell’Auditorium, la definisce come una mostra antologica. Una comunicazione corretta, visto che all’interno dello spazio sono allineate opere di varie date che riassumono un arco di attività di oltre venti anni. In realtà una notificazione deviante, che non prepara affatto al mutare di colpi d’occhio e rimandi fascinosi e spaesanti. che il visitatore si trova davanti attraversando le nove sale, in cui Tranquilli, ha sgranato e riscritto il suo testamento d’autore. Più che una retrospettiva, uno spettacolo a tutto tondo che alterna al linguaggio a tre dimensioni delle opere modellate in vetroresina quello del teatro, del cinema, della coreografia e della sceneggiatura, tracciando il percorso di un viaggio effimero, che calato il sipario, non potrà più essere riproposto. Gustato allo stesso modo. Dettaglio che impreziosisce l’occasione di assistervi in presa diretta perché nessun altro spazio come questo garage potrà scatenare le stesse associazioni e le stesse emozioni.

Ma con questo invito di partecipazione autorizza lo spettatore a far la sua parte, lo libera dalla schiavitù di uniformarsi al copione d’intenzioni e significati che l’autore vi ha iscritto. E che lui stesso minimizza: «Una sfida – spiega – non molto diversa da altre che ho affrontate esponendo le mie opere al confronto e al dialogo con altri luoghi di forte valenza simbolica, come il museo archeologico di Napoli».

E invece no. Questo spicchio d’Auditorium sepolto sottoterra, sottratto ad ogni luce proveniente dall’esterno, pareti anonime e nude, non è un posto come un altro. E a me, critico e visitatore sicuramente fazioso, ammalato di altre tentazioni, altri miti diversi dal suo, ha fatto subito pensare a una sorta di viaggio nell’Ade, in un aldilà che impone anche a livello simbolico le sue leggi. I supereroi che Tranquilli maneggia con rodata disinvoltura evocati a ripercorrere lo stesso cammino dei divi di mitologie più vecchie e meno trendy, come Ulisse ed Enea, scesi a confrontarsi con altri fantasmi dell’anima e della mente. A misurare passo dopo passo le tragedie della morte e del proprio tempo di vita , a sbrogliare la matassa del bene e del male, calpestando come Dante i gironi dei dannati, inoltrandosi in una selva molto più oscura delle strade di aggressioni e vendette di Gotham city, regno postmoderno di tenebre e distopie a cui Adrian Tranquilli ha rubato quell’uomo pipistrello di Batman che, gli piaccia o meno, è diventato la sua musa preferita , il suo marchio di riconoscibilità, il suo capolavoro e la sua maledizione.

Adrian Tranquilli, “The Wrong Way To Hollywood”, 1998

In quel garage, insomma, ho intravisto, una tana-prigione da cui liberarsi, come a mio avviso dovremo far tutti, anche sapendo che ne costruiremo un’altra in cui trovare ispirazione, rifugio, possibilità di altri camuffamenti. Una fine che postulava un nuovo principio. Quale? Non importa. Penso che questa molla d’inquietudine, questa paura di aver toccato il fondo del proprio talento, sia propria di ogni artista. Certo, è un pregiudizio attribuire ad altri i propri traguardi, d’età, formazione, esperienza. Ma a tentarmi è stato proprio l’incanto del singolare spettacolo che qui Adrian Tranquilli ha messo in scena, e che altre volte visitando altre sue mostre, non avevo provato.

Incanto provocato da due sensazioni. Due precipizi simbolici. La prima, risultato di una scenografia ben studiata, è quella di aggirarmi in un labirinto di andirivieni, corridoi ingannevoli tagliati da porte e sipari inattesi dove è inevitabile smarrirsi, E subito mi è venuto in mente il labirinto di Creta. Anche là un ibrido insidioso d’umanità disattesa e aggressiva da tener a bada: e se anche il Batman di Tranquilli con tutti gli sbalzi di umore, i cambi di parte che i disegnatori e il cambiare dei tempi gli hanno cucito addosso per tener viva l’attenzione dei lettori, fosse diventato una sorta di Minotauro da nascondere e abbandonare in una grotta, per disgusto e stanchezza, di venti anni di convivenza con un Io cannibale? E se quelle ali esposte come un cimelio in una delle stanze ad evocare la variante ambigua dell’Angelo caduto come supereroe in crisi, non fosse solo una citazione del congegno di volo di Leonardo, cui l’autore ammette di essersi ispirato, ma un chiamar sulla scena e denunciare se stesso nei panni spericolati di Icaro?

La seconda sensazione, dettata dal buio, dalle apparizioni lungo il tragitto e dal taglio di retrospettiva, è quella di un viaggio nell’Ade, un’andata e ritorno compreso dal regno della morte, per congedarsi dai propri fantasmi ormai logori, i supereroi, passandoli uno dopo l’altro in rassegna, poco importa se si rischia di perderli, come succede a Orfeo con Euridice, per la curiosità di guardarsi all’indietro.

In questa direzione, verso questi segnali di trapasso che la mia immaginazione trasforma in eutanasia, ben oltre le intenzioni di Adrian Tranqulli, mi spinge tra l’altro la vista della prima e delle ultime due sale, quelle che più mi hanno colpito.

Il prologo della rappresentazione è affidato a tre grandi statue che si stagliano all’ingresso, per il loro imponente biancore. Tre versioni dilatate di Batman e della sua inconfondibile sagoma dagli orecchi aguzzi, raccolte a cerchio, i mantelli allungati come tuniche femminili, la postura delle gambe irrigidita come attori sui trampoli. Immediato il riferimento iconografico alle Tre Grazie di Canova: ne accenna anche il curatore Antonello Tolve che ci fa da guida. Evidente anche il messaggio dell’autore che spia la mutazione dei tempi dalla balconata antropologica dei fumetti e con vista acuta ci segnala il crollo del modello culturale del maschio e l’avvento di un’epoca di identità sessuali fluide A me viene però da pensare anche alle tre streghe che appaiono a profetizzare le colpe e il crollo di Macbeth. E a tre sentinelle che vigilano sulla soglia dell’Inferno, usurpando i ruoli di Minosse e di Cerbero: perdete ogni speranza o voi che entrate.

Anche Tranquilli sembra aver perso almeno in parte la sua speranza nella capacità trainante dei supereroi che ha eletto a modelli e messo in posa con responsi e domande. E di voler confessare questo suo vuoto profetico da oracolo, nelle sale con cui ci congeda. La prima è lo spogliatoio di un burattinaio: dai ganci pendono come impiccati ancora avvolti dai fili le marionette dei personaggi dei fumetti che ha più utilizzato per fare arte. Accanto a Batman c’è il volto spiritato e il costume rosso di Spiderman. Più in là penzola dal cappio la faccia stanca e la tenuta blu da semidio spento di Superman. Un canto del cigno o solo una pausa di scena?

Adrian Tranquilli, “Know Yourself”, 2004

Gli stessi dubbi che suscita il gran finale. Sullo sfondo la ripresa cinematografica di un Oceano in tempesta. Davanti sull’arenile i corpi accartocciati di una ancora più ricca galleria di personaggi, proiettati alla fama di miti da film e fumetti da incassi e circolazione planetaria. Relitti senza vita o sopravvissuti ad uno spossante naufragio che li ha stremati? Il gioco è riconoscerli in quei grumi rannicchiati: sì, c’è anche il corpo da alieno del piccolo maestro yedi di Guerre Stellari, perché Tranquilli non esita per variare il menù a cercare modelli in technicolor anche altrove: esemplare l’apparizione di un Et, il folletto marziano di Spielberg che ritroveremo steso su una sorta di tappeto da camera anatomica in un siparietto della mostra.

Non manca all’appello neanche la maschera spigolosa e il baffo affilato sul ghigno di V,un anarchico baronetto inglese resuscitato come vendicatore da un film di grande successo di qualche anno fa, e usato come bandiera da corteo da un movimento antisistema deciso a salvare come ultima sponda per l’uomo l’un per cento di libertà sfuggito all’esproprio dei poteri onnivori che governano il mondo, indirizzano i consumi e mercificano la trasmissione dell’informazione e dei processi di conoscenza. Anche Tranquilli lo ha inserito nel suo universo creativo come emblema di ribellione che appare più volte in questa retrospettiva. Ora per arredare le colonne dell’ambiente che ha ribattezzato come il suo studio. Ora per costellare come un germe infestante gli squarci slabbrati di una torre spaccata, piazzata a centro sala, come un salto di confine. Ricorda la Torre d Babele, ma evoca soprattutto, a seguire la voce del curatore, quel celebre monumento alla rivoluzione di Ottobre, eretto da Tatlin come simbolo dei rossi orizzonti del comunismo all’avvento. Significativo che Tranquilli abbia registrato e commentato cosi, fuori dai suoi schemi narrativi, il crollo di quella illusione ideologica, e ne abbia immaginato una possibile sopravvivenza solo attraverso il proliferare tra le rovine di una icona di una rivolta collettiva così esile, vaga nei suoi obiettivi e senza ancoraggi da non alimentare speranze. È l’unico sconfinamento verso la politica che l’artista concede al suo dichiarato distacco di osservatore, antropologo alla sua prudenza di artista che naviga sul vascello del riciclo formale di un usato sicuro le tempeste e il dolore del mondo, senza la volontà di cambiare le cose, soccorrere almeno chi sta annegando. A me sembra un limite d’artista, una postazione di ricerca da salotto buono, che rischia di annacquare e sterilizzare anche l’eleganza, la sobrietà e l’efficacia delle sue creazioni. Ma non intacca l’impatto spettacolare di alcune chicche in vetrina nelle sale centrali.

Tra queste segnalo due filmati che scorrono in due stanze vicine Nella prima vediamo le sagome in ombra di due spettatori d’eccezione che si fronteggiano, il solito Batman e un Angelo caduto, e alle loro spalle uno schermo su cui scorrono spezzoni di un campionario di capolavori horror e divi del muto, chiusi da un omaggio intenso come una dichiarazione d’amore a un celebre bianco e nero del primo Fellini, Lo sceicco bianco.

Nella seconda, arredata con una poltrona da primattore e da un baldacchino, vediamo Achille Bonito Oliva, gran mattatore della critica d’arte contemporanea, che Tranquilli ha eletto a nume tutelare esibirsi nei panni maligni e nel trucco rugoso e sbafato di Joker per spiegare ad un Batman invisibile che pur facendosi guerra lui e l’altro sono solo due maschere gemelle e speculari di disadattamento e di crudeltà. Incolpevoli come Jessica Rabbit perché devono sottostare al potere di chi li disegna così.

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