Ettore Catalano
A proposito di “Capibranco”

Bari è un’isola

Il nuovo romanzo di Beppe Lopez, che chiude la trilogia dedicata al Quartiere Isola di Bari, è il racconto di un mondo chiuso e autoreferenziale. La deriva finale di una terra perduta che neanche nel dialetto riesce a trovare le ragioni delle sua identità

Per poter recensire il nuovo romanzo di Beppe Lopez (Capibranco, Besa Muci, 2021), occorre precisare che il romanzo è stato inserito dall’autore e dall’editore in un cofanetto intitolato Quartiere Libertà, comprendente il fortunato romanzo Capatosta, uscito nel 2000, e La scordanza, edito nel 2008 e la nuova prova narrativa Capibranco, appunto. Il merito di Capatosta stava nella riuscita capacità di dipingere un ambiente sociale proletario e urbano preciso e definito, il Quartiere Libertà di Bari: una storia dura e spietata della generazione nata negli anni Venti, raccontata in una lingua che aderiva al suo oggetto e insieme ne prendeva le distanze, un calcolato impasto di realismo e di ironia, un romanzo popolare che recideva alla base l’equivoco di attardati neorealismi, ma si teneva pure lontano dalla miticità epica, anche questa fuori tempo massimo, del racconto corale che era in voga negli anni in cui usciva il romanzo di Beppe Lopez.

Così scrivevo recensendo, nel 2000, il libro appena uscito da Mondadori, cui seguì La scordanza nel 2008, un romanzo anche di forte tensione civile, un racconto, forse in parte anche autobiografico per quanto si possa in una costruzione narrativa, che seguiva le vicende della generazione barese del Libertà negli anni tumultuosi e grandi che misero le premesse per un processo di ammodernamento di un Paese ancora arcaico, interrotto dall’assassinio di Moro. Esce oggi il terzo romanzo, Capibranco, inserito da Besa in un cofanetto intitolato Quartiere Libertà, con l’ambizione di tracciare le vicende di quattro generazioni di italiani del Quartiere Libertà, i quali partono e ritornano da un quartiere che l’autore, in una recente intervista, definisce la «sua Macondo», un luogo sospeso nel quale sembra concentrarsi tutta l’umanità, uno spazio contraddittorio in cui si scontrano la tentazione al degrado e la possibilità di uno sviluppo virtuoso.

Lopez, con coraggio ostinato e una coerenza indubbia nella scelta di campo, scrive proponendosi di raccontare lo spirito dei tempi, ribadendo la sua estraneità alle mode narrative di “genere”, riportandosi agli esempi della grande narrativa italiana del Novecento, in una dichiarata polemica contro fiction, noir e polizieschi, una polemica forse in alcuni punti eccessiva, ma per molti versi anche salutare contro tanta letteratura scritta quasi su commissione della possibile sceneggiatura televisiva o cinematografica e incapace di essere anche e soprattutto buona narrativa.

Capibranco, romanzo scritto in una lingua molto diversa dalla forza eversiva di Capatosta e dalla complicata e faticosa commistione di dialetto e italiano esibita ne La scordanza, narra la storia dei fratelli Lagravinese negli anni tra la fine degli anni Novanta e il primo ventennio del nuovo secolo e dell’impossibile “uccisione” del fratello maggiore, Michelino, da parte del più giovane Vittorio, avendo sempre sullo sfondo via Mirenghi e il quartiere Libertà in cui si avvia e poi si conclude la trama, forse un po’ avvitandosi su se stessa in una spirale di segreti e di trame criminali che lasciamo al lettore di scoprire.

Il conflitto tra i due fratelli, entrambi avvocati, scoppia per futili cause, ma affonda le radici in una complicata vicenda di mitizzazioni, autonarrazioni, identificazioni e competizioni, primordialità da capibranco, autoreferenzialità, autoritarismi e gelosie, tutto sullo sfondo di una società ormai liquida, nella quale sono scomparsi tutti i punti di riferimento forti del passato, in una dimensione unica dominata dalla volgarità dei messaggi e degli spot televisivi, in cui il potere e il profitto sono incontrastati padroni. Lopez costruisce la lingua di Capibranco proprio uniformando scelte lessicali e spunti narrativi al piattume e alla mediocrità di cui è fatta ormai la nostra quotidianità, combattuta da Michelino nell’appassionata determinazione di schierarsi dalla parte di chi sempre subisce e rischia di soccombere e invece accettata da Vittorio come continua scalata verso il potere e i soldi facili di chi difende, invece, i responsabili di morti sul lavoro, inquinamenti e tutto ciò che ne consegue, nel pieno disprezzo di ogni moralità pubblica e privata.

Nessuno dei due personaggi è tuttavia esente da contraddizioni e ambiguità, slanci emotivi e ritirate e rimozioni, in un balletto che riproduce la grammatica travolgente dei ruoli sociali e psicologici devastati dalla mancanza di senso critico e dalla omologazione di pasoliniana memoria.

Romanzo storico-sociale e romanzo familiare e forse anche romanzo di formazione, Capibranco esibisce personaggi di forte rilievo, non solo i due fratelli antagonisti, ma soprattutto alcune figure femminili come Lele, la compagna di Michelino (lacerata tra la volontà di procreare, il desiderio lancinante, per le sue condizioni, di maternità e la scelta di morire per assicurare la vita della figlia che deve nascere) e Mariuccia figlia del fratello più anziano (ingenua testimone di un dramma che la riguarda direttamente e di cui non avrà mai coscienza). La volgarità del mondo del presente liquido inghiotte e scompagina anche le scelte linguistiche iniziali e ad accamparsi sullo sfondo è un quartiere Libertà sconsolatamente lasciato al disorientamento etico e alla scomparsa di ogni carattere forte, un ammasso di strade senza più identità, neppure quella patina dialettale che poteva almeno servire ad identificarlo come “isola”.

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