Nicola Fano
A proposito de "L'anno del bradipo"

Leggere e camminare

Domenico Calcaterra accompagna il lettore in un anno di riflessioni, ritratti, considerazioni in margine a scrittori, pittori e musicisti. Un modo, affascinante, di interrogarsi sul senso del lavoro culturale, oggi, quando conoscenza e capacità critica vengono considerate dei disvalori

Helsinki 1938, infuria il nazismo in Europa con il suo lascito bavoso di razzismo: Abraham Tokazier, 29 anni, velocista, promessa dell’atletica finnica, vuole conquistare un posto alle Olimpiadi del 1940. Partecipa ai campionati nazionali e vince. Vince inequivocabilmente: lo hanno visto tutti i presenti, tutti i giornalisti, tutti gli avversari. Eppure quando viene stilata la classifica ufficiale Abraham è solo quarto. Come è possibile? Allo stadio c’è una delegazione di tedeschi: per non dar loro un inutile dispiacere, i dirigenti della federazione della Finlandia hanno preferito declassare il povero Abraham Tokazier. Il perché è scritto nel suo nome: è ebreo. Per conseguenza, Tokazier lascerà nauseato l’atletica; non festeggerà neanche quando, dopo la guerra, la federazione ammetterà l’errore. E quando gli restituiscono la medaglia, nel 2013, è morto da quasi trent’anni.

Trovo questa storia terribile ed emblematica in un libro davvero atipico che mi ha accompagnato attraverso lunghe letture: L’anno del bradipo (Inschibbolet, 338 pagine, 26 Euro), dallo schivo sottotitolo “Diario di un critico di provincia”, essendo l’autore, ossia il nostro Domenico Calcaterra, un valente studioso radicato nella sua Sicilia. E, infatti, il primo nome che viene alla mente, affrontando queste pagine, è quello di Leonardo Sciascia, al quale sicuramente Calcaterra si ispira, soprattutto nella scelta stilistica di comporre una sorta di regesto lungo un anno, con annotazioni quotidiane che recano ciascuna – con perizia sciasciana, appunto – il giorno e l’ora della composizione. Come se l’attimo e la sua inafferrabile fuga fosse il contraltare “pazzo” (la corda spagnola, avrebbe detto Sciascia) alla razionalità (la corda francese) che invece sovrintende rigorosamente queste pagine.

Diciamo subito che è bello perdersi in questo libro: un flusso di riflessioni, pensieri, considerazioni, ritratti. Ce n’è molti di scrittori, pittori e musicisti (quelli più amati dall’autore, evidentemente), ma mi ha colpito in particolar modo l’abbozzo di un curioso , ignoto personaggio, soprannominato Porgy (non per ragioni gershwiniane, rivela l’autore) il quale, per trovare una ragione di sé, si è trasferito alle isole Canarie sperando di impiantare lì un commercio di squisietezze siciliane (Porgy è un amico di Calcaterra, ovviamente): «Allo scopo ha pure conseguito un diploma di gelataio e ha compiuto un breve periodo di apprendistato in un bar di Capo d’Orlando», spiega l’autore senza dirci se l’avventura dell’amico poi abbia avuto buon esito oppure no. Mi ha colpito, dunque, questa sospensione; questo elogio dell’inutilità, di colui che si pone obiettivi irragionevoli per dare un senso a se stesso. Non è questo, in fondo, oggi, il nostro destino di uomini di cultura?

Naturalmente, trattandosi del diario di un critico, non mancano pagine illuminanti in materia di analisi della complessità creativa. Come quelle su De Chirico e il suo strambo romanzo Ebdomero; o gli accenni costanti all’altro nume di Calcaterra, Borgese. O ancora varianti leggere intorno a Dallapiccola. Senza contare una singolarissima pagina dedicata a Emilio Isgrò e alla sua arte delle cancellature, cui Calcaterra fa seguire una riflessione sul “cancellare” come metodo critico fondamentale. E lo fa, naturalmente, cancellando parole e frasi con un artificio grafico di grande impatto che richiama, appunto, le recenti, fortunate opere di Isgrò.

Ma qual è il senso di questo anno vissuto lentamente? Bisogna tornare alla storia di Abraham Tokazier per rispondere. Calcaterra ci rivela che ha scelto di raccontare ai suoi alunni l’avventura del corridore ebreo brutalizzato dai finnici in vena di carinerie con il nazismo nel giorno della memoria. Egli, infatti, insegna letteratura italiana alla scuola media. Si tratta di una scelta di campo: riflettere sulla Shoah, dice Calcaterra, significa suscitare nei ragazzi dodici/tredicenni emozioni autentiche, comprensibili. Un corridore discriminato per ragioni razziali è più vicino al loro oggi di mille altre, forse più tragiche vicende del tempo dell’Olocausto. Sta all’intellettuale, poi, aiutare i ragazzi ad attraversare il ponte della storia: da oggi fino a ieri.

Ecco il senso del libro: riflettere sulla funzione dell’intellettuale in un tempo in cui la cultura – grazie a una strategia politica trentennale propugnata del prode Berlusconi ma condivisa pienamente anche da tutti i suoi avversari – è stata relegata nel novero dei disvalori. O, meglio, delle vecchie cose inutili, inabili a conseguire successo, carisma e denari. E invece lì nelle aule scolastiche bisogna risalire la corrente per rimettere in moto la fantasia e lo spirito critico al contempo. «Ogni volta – spiega Calcaterra – la scommessa è sempre la stessa: portare in scena, perché non vada perduta, la nostra irrinunciabile voglia di tramandare un canone di verità e bellezza». Un compito difficile, oggi, senza dubbio, ma, appunto irrinunciabile. E questa tenacia Calcaterra ha voluto raccontare lungo un anno di episodi, letture e riflessioni.  

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