Anna Camaiti Hostert
Cartolina dall'America

Il caso Malcolm X

Una serie televisiva di grande successo ha riaperto il caso dell'omicidio, 55 anni fa, del leader nero e pacifista Malcolm X. Errori giudiziari, bugie, depistaggi... insomma, una tipica storia di ragion di Stato e di diritti negati. Una vicenda purtroppo molto attuale

Che le serie televisive americane abbiano ormai un’importanza basilare non solo per illustrare la società, ma anche per rivedere la storia di quel paese è ormai un fatto assodato. Addirittura per riaprire, come in questi giorni, procedimenti giudiziari e fare scoprire nuovi indizi su omicidi eccellenti come quello di Malcolm X, scagionando colpevoli che sono stati in galera per decenni. È il caso di Netflix che in una mini docuserie di 6 puntate Who Killed Malcolm X? andata in onda nel febbraio 2020 racconta nei dettagli questo evento. E lo fa attraverso gli occhi di Abdur-Rahman Muhammad guida turistica di Washington che ha dedicato anni a mettere insieme una documentazione sui tragici eventi di quel 21 febbraio 1965 quando Malcolm X fu crivellato di proiettili nella Audobon Ballroom di New York da alcuni afroamericani.

Nel 1966 furono condannati per omicidio in tre: uno colto sul fatto e ferito dalla polizia, Mujahid Abdul Halim (Talmadge Hayer) e altri due, Muhammad Aziz (Norman Butler) e Khalil Islam (Thomas Johnson), catturati alcuni giorni dopo. Questi ultimi due hanno passato anni in prigione dichiarandosi innocenti e mentre Islam è morto nel 2009, Aziz ha oggi 83 anni e vive a New York. Sebbene Hayer nel 1977 abbia testimoniato che gli altri due non erano coinvolti nel fatto di sangue, niente è stato fatto e sono rimasti in prigione.

Ieri il procuratore distrettuale di New York, Cyrus Vance Jr. dopo mesi di indagini, a seguito della serie, ha scagionato ufficialmente i due imputati di questo omicidio. “Questo indica una triste verità e cioè che le forze dell’ordine spesso falliscono nel compito di essere all’altezza delle loro responsabilità.  Dimostrazione di ciò è il fatto che questi uomini non hanno ricevuto la giustizia che meritavano” – ha affermato Vance.

Nel novembre 2020 è stata resa pubblica una lettera di Raymond Wood, agente sotto copertura in pensione della polizia di New York. In essa il poliziotto accusa i suoi capi di averlo forzato ad adescare alcuni addetti alla sicurezza di Malcolm X a commettere crimini che poi risultarono nel loro arresto da parte del FBI, proprio prima dell’omicidio del leader nero. E un cugino dell’agente rivela che non c’era neanche alcuna misura di sicurezza nella stanza per proteggere Malcolm X.

Secondo il New York Times l’investigazione aperta da Vance ha provato che l’FBI  aveva documenti che indicavano altri sospetti diversi dai due arrestati e un testimone che aveva supportato l’alibi di Aziz che si trovava a casa per un infortunio alla gamba. Ma niente è stato fatto. Da questa indagine si è venuto inoltre a sapere che il procuratore di allora era a conoscenza dei fatti e sapeva che agenti sotto copertura erano presenti nella sala dove avvenne il crimine. Era inoltre a conoscenza del fatto che la polizia sapeva che qualcuno aveva chiamato il Daily News di New York annunciando l’uccisione di Malcolm X quello stesso giorno. E anche in questo caso niente era stato fatto. “Questa non è semplice negligenza – ha detto l’avvocato di Aziz, Deborah Francois –. Questo è il prodotto di una colpa estremamente grave”.

Si sa inoltre che Hoover allora capo dell’FBI aveva piazzato una sorveglianza quotidiana su Malcolm X che riteneva pericoloso per la sicurezza nazionale, specificando che si sarebbe dovuto fermare prima che fosse troppo tardi. E specie dopo la rottura tra Malcolm X e Elijah Muhammad, il fondatore della Nazione dell’Islam, aveva buon gioco a soffiare sul fuoco delle divisioni interne al movimento per fomentare odi e rivalità e per cooptare membri dell’organizzazione che potessero agire contro il carismatico leader nero.

Il procuratore distrettuale Vance ha aperto l’inchiesta investigativa dopo l’uscita del documentario di Netflix. Phil Bertelsen che ha prodotto la miniserie ha rilasciato alcune dichiarazioni al canale CBS: “L’FBI ha agli atti testimonianze rilasciate da almeno 9 persone presenti nella stanza dove avvenne  l’omicidio quel giorno che hanno parlato di chi commise il crimine. La descrizione completa degli uomini che vi parteciparono e in particolare di colui che aveva in mano il fucile è stata molto dettagliata.  Ma questa informazione non fu mai data alla polizia di New York”.

In novembre la figlia di Malcolm X Ilyasah Shabazz ha detto sempre alla CBS che la sua famiglia ha sempre avuto dubbi sulla dinamica dell’omicidio del padre. “Posso dire che sono stata sorpresa da questa riapertura del caso, ma la mia famiglia e molti altri si sono sempre chiesti come fosse andata veramente e abbiamo sempre voluto che verità venisse a galla”

E la riapertura di questo cold case eccellente, importante per fare luce su un fatto storico di enorme gravita acquista un particolare valore adesso, quasi sessant’anni dopo quando ancora i crimini razziali sono all’ordine del giorno. Mi riferisco  ai due processi  a cui stiamo assistendo in questi giorni in cui sul banco dei testimoni ci sono da  un lato 3 uomini bianchi che a Brunswick in Georgia nel febbraio 2020 hanno  freddato brutalmente un ragazzo di 25 anni la cui unica colpa era quella di  fare jogging in un quartiere bianco e dall’altro  un teenager di 17 anni che a una manifestazione di  Black Lives Matter seguita all’uccisone dell’ennesimo nero da parte della polizia in agosto 2020 con un fucile da caccia ha ucciso due persone a Kenosha in Wisconsin.

Risuonano attuali le parole di Malcolm X quando incitava i neri a ribellarsi opponendosi anche con la forza al potere dei bianchi che li discriminava, specie a quello della polizia che commetteva su di loro violenze inaudite. Per ribadire a testa alta la loro dignità di esseri umani.  La verità delle sue parole purtroppo dopo quasi sessant’anni non ha perso di incisività e appare ancora tragicamente vera.

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