Nicola Fano
Esce “È stata la mano di Dio”

Famiglia Sorrentino

Il nuovo film di Paolo Sorrentino è uno struggente ritratto di Napoli e di una generazione che ha preferito gli idoli facili piuttosto che cambiare una "realtà deludente". Una grande opera corale che esalta un magnifico cast di attori di teatro

È stata la mano di Dio, il nuovo film di Paolo Sorrentino, è un ritratto elegiaco di Napoli; così come La grande bellezza era un epilogo terribile su Roma. Sorrentino è un regista di luoghi e di ambienti che usa il cuore e le paure dei personaggi per entrare nelle pieghe delle società che vuole descrivere: l’intellettuale fallito e disincantato Jep Gambardella per raccontare la decadenza di Roma, se stesso da adolescente (si direbbe un intellettuale in erba che parla in versi e non riesce a scaldarsi per il calcio) per affrontare una città che si può vivere solo in sogno.

Come sempre, nei film di questo regista, l’inquadratura iniziale dice tutto: qui, prima dei titoli di testa, un poderoso piano sequenza di qualche minuto ci porta dal mare a Napoli in un carosello nel quale gli occhi si perdono. Non è una cartolina (malgrado il Vesuvio compaia spesso, laggiù, nei campi lunghi) ma una dichiarazione d’intenti: lo spazio urbano è di quelli da far girare la testa (nel piano sequenza iniziale la macchina da presa alla fine gira letteralmente su se stessa). Ma non è una cartolina perché lungo tutto il film Sorrentino ci mostra piuttosto una città misteriosa, oscura, opaca anche nei suoi scorci più affascinanti.

La storia, si sa, è quella della famiglia Sorrentino e della morte drammaticamente improvvisa dei genitori. Il padre fin troppo simpatico (Toni Servillo, sobrio nella coloritura, da grande attore qual è), la madre dolcissima (Teresa Saponangelo, davvero notevole interprete), un fratello distaccato (Marlon Joubert) e una congrega di macchiette ciascuna per sé strepitosa. La prima ragione della bellezza di questo film sta nella scelta di un cast di attori di teatro i quali non spingono mai troppo sul pedale della caricatura: vi resteranno impresse le poche inquadrature dello zio Renato Carpentieri, quelle dell’altro zio Massimiliano Gallo, l’alterigia metafisica della zia Dora Romano, le facce del vicino “pazzo” Lino Musella. Ma è bravissimo anche il giovane Filippo Scotti, protagonista misurato, che incarna il regista da giovane. La prima parte del film, che è una sorta di memoria familiare collettiva e culmina nel pranzo all’aperto durante una gita al mare: a metà strada tra la scena che chiude Non ti pago! nella versione cinematografica con Eduardo, Peppino e Titina De Filippo, e la cena degli attori d’avanspettacolo in Luci del varietà di Fellini/Lattuada. Il pranzo collettivo (di famiglia o no) è un classico della cinematografia italiana: da oggi Paolo Sorrentino entra di diritto nell’olimpo del genere.

Che Sorrentino sia l’unico grande felliniano (sia pure in modo personalissimo) è risaputo: qui il “maestro” è più volte citato e addirittura chiamato in causa giacché il fratello del protagonista partecipa a un provino con il regista. Ma forse in questo film i riferimenti che vengono più in evidenza sono proprio i due De Filippo: la prima parte – quella gaia, spensierata, struggentemente comica – richiama Peppino e la perfezione del suo tratteggio dei personaggi anche minori; la seconda – quella della solitudine dopo la morte dei genitori – suona più eduardiana, introspettiva. Un miscuglio perfetto di sogno e amarezza, come nelle parole del giovane contrabbandiere (brutto, goffo e violento), unico amico del giovane protagonista che sogna di fare il pilota di offshore ma finirà in galera.

Insomma, un film di alto livello, emozionante, magico (con la complicità di Napoli), suggestivo. E mai banale. Un modo per raccontare un tempo e una città; una generazione e i suoi sogni infranti: Fabietto, il giovane protagonista, trova il modo di sfuggire da Napoli (i titoli di coda scorrono sul suo viaggio in treno verso Roma) e troverà quello per fare fortuna nel cinema, ma certo la sua generazione rimarrà impigliata nell’idolatria della superficialità (il protagonista vaga solo per Napoli mentre tutti celebrano il primo scudetto dell’èra Maradona). La realtà resterà incompresa, misteriosa. «Deludente» come dice lo zio Renato Carpentieri: «Per questo occorre migliorarla con il cinema», decide nel finale Fabietto. E infatti questo continua a fare Paolo Sorrentino: migliorare una realtà deludente. Occorre ringraziarlo.

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