Giuliano Compagno
Un irregolare della musica

Canzoni da mangiare

Ritratto di Ferdinando Regis, cronista politico per mestiere e cantautore per passione. Nelle sue composizioni (dedicate al cibo e all'arte di cucinare) un certo swing alla Rabagliati si mescola alla genialità di una ricetta insolita e perfetta

Quelle giornate di metà maggio del 2014 in Serbia, una tremenda alluvione che aveva appena causato vittime e danni. Non dimentico che nelle piazze e nei vicoli di Belgrado persone di ogni età cantavano, suonavano e danzavano per raccogliere i dinari destinati alla ricostruzione. Chiunque sapesse suonare uno strumento era sceso in strada. Ero ammirato. Quale fosse il senso delle arti amatoriali lo compresi in quell’occasione. Abituati come siamo a giudicare ogni attività non rimunerata alla stregua di un hobby, abbiamo smarrito l’importanza del fare e del creare per passione. Forse non avevo bisogno di aprire con quell’esempio di solidarietà nazionale, perché gli stessi ragazzi li avrei rivisti, la settimana dopo, suonare in un caffè del centro o a casa di amici. E allo stesso modo mi viene da lodare la forte vocazione di un vecchio amico che ho seguito sul palco di un locale romano nel suo Primo Secondo e Swing, da lui ideato, scritto e messo in scena grazie al talento musicale di Mauro Majore, Marco Ioannilli, Filippo Bombace (sax tastiere e batteria) e ad Amina Magi e Sara Poledrelli, ottime attrici. Ferdinando Regis, il vecchio amico, se l’era scritta e se la cantava, bene.

Palermitano mai romanizzato, egli è stato uno dei più valenti giornalisti parlamentari italiani. Trent’anni e passa in AdNKronos, equidistante, mai servile, capace di sopportare con stoica signorilità l’insipienza di un Gasparri e persino le spocchie di Craxi e D’Alema. Per sua fortuna egli sapeva estraniarsi da quelle litanie in virtù delle sue abilità narrative e cantautorali. Nel 1993 pubblica per Mondadori, insieme a Paolo Cucchiarelli, Mani pulite e bocche aperte. Le frasi celebri di Tangentopoli. Un bel successo, che però non lo distoglie né dal suo lavoro né dalla sua prima passione: scrivere canzoni. Già alla fine degli anni Ottanta infatti Regis aveva scritto e arrangiato coi “Minimum Sax” una canzone dedicata a Ciriaco De Mita, il cui ritornello erano in molti ad accennarlo in Transatlantico…

Se rinasco resto a Nusco,
gioco a carte e me ne infischio,
in politica non rischio,
se rinasco resto a Nusco…

Del resto lo stile palermitano di minoranza, e cioè l’understatement a cui Regis aderisce sin dalla prima giovinezza, lo induce a trasgredire le norme senza darlo a vedere, a far uso di un acume post-borbonico e infine a interpretare l’understatement non già come un volare basso ma come un volare altissimo, il che gli risultava assai più chic. Quando Regis arriva alla pensione, per lui l’evento è più agognato di uno scudetto rosanero. Della politica, faccenda di mezze figure e di zero idee, non ne può più. E allora sceglie di concedersi, in ordine di apparizione, tre cose: le soddisfazioni delle sue tre giovani figlie; le ricette che impiatta per sé e per una moglie per cui soffrire e soffriggere sono il medesimo stato dello spirito; e, ultimo non ultimo, il progetto di una scrittura gastronomica da cantare o declamare a seconda delle armonie e dei versi.

Francesco Fatone

Da qui ha avuto origine uno spettacolo molto strano; in qualche misura le melodie (tra parentesi) celebravano il Duke Ellington di “It don’t mean a thing if it ain’t got that swing” e negli spazi bianchi dei vocalizzi si succedevano storie, citazioni e aneddoti sul cibo e sugli infiniti gusti che ne derivano.

«Qualunque forma e consistenza abbia, il pane è tra i protagonisti della storia dell’umanità, anche in una dimensione che trascende quella puramente alimentare. Isabel Allende scrive che “come la poesia, il pane è una vocazione che richiede tempo per l’anima. Il poeta e il panettiere sono fratelli nel compito di nutrire l’umanità”. Che poi, è stata la donna, quattromila anni fa, a far conoscere il pane all’uomo: È scritto nel poema epico di Gilgamesh, il più antico del mondo».

C’entra con la vita eccome, e contrasta con almeno quattro opere che, negli ultimi 130 anni, avevano descritto ben altre inclinazioni. In Fame di Knut Hamsun la voracità; ne La grande abbuffata di Marco Ferreri il degustare fino al suicidio; in Mi fa fame di Giancarlo Cauteruccio l’ossessione compulsiva del cibarsi, in Mangiare di Carlo Bordini la ripetizione dell’atto rituale. Nessuna di queste attitudini ha mai sfiorato Regis, che un po’ è libertino e un po’ sottoscrive una bella frase di Roland Barthes: «Nessun Potere, un po’ di Sapere e quanto più Sapore possibile». Sicché per lui cucinare e cantare sono fasi coincidenti del vivere. Un verso, alla pari di un condimento, si gusta mentre si crea. È la performatività del giornalista, che gli è rimasta dentro.   

Tortiglioni, tripoline, vermicelli e ravioloni,
creste, trofie e millerighe,
le lasagne a tu per tu,
lumaconi, capellini, mezzelune e cellentani
conchiglioni e ballerine, piombi e paccheri a go go.

Una rubrica di paste, ciascuna con la sua terra, il suo punto di cottura, il suo dialetto e i suoi panorami. Tutto sulle nuance che Alberto Rabagliati (Regis lo ricorda un po’) avrebbe più amato. Bolle, l’acqua bolle è uno swing che tipicamente sale e scende sino alla scolatura della forma prescelta, salvo poi, con un guizzo, aggiungere al menù quegli anelletti che, per un palermitano di classe, sono il tocco popolare di una domenica in famiglia, nella fremente attesa che qualcuno si alzi per primo e vinca la camurrìa di quell’adunanza. Ma nulla che possa chiudersi con un gelato; essendo un pasto a sé, terminare con esso varrebbe a dire sminuire sia il pranzo che il dessert. E sarebbe un doppio sacrilegio. Per questo il nostro risalirà verso Napoli e col rhum dimenticherà le piccole noie del passato remoto.   

Ormai la situazione è tragicomica,
la gastrite è diventata cronica,
non sopporto più l’imbecillità,
vi prego datemi un babà. 

C’è qualcosa di molto confortante nell’esercizio di una vocazione gratuita. Si resta nel dubbio che la virtù migliore si nasconda, anzi si dondoli swinghianamente tra le note e le parole di alcune ispirazioni differenti. E in fondo è questo il bene del pensionarsi, di lasciarsi indietro il tempo dei doveri e dei rigori e contemplare innanzi a sé la giornata piena. Il realizzarsi di una libera idea.

Qualche anno fa, nel fondare l’Associazione “Panchine e Cantieri”, Francesco Fatone ebbe l’intuizione di aggiungere ironia al ritrovato primeggiare della mente. Quel che era in più stava nel suo cuore, giacché non solo di un elogio del buon ritiro si trattava, ma anche di rifiutare l’unica alternativa apparente: tra il perseverare in un lavoro nero e l’abbandonarsi al tedio dell’inattività. Fatone era un importante dirigente delle Ferrovie Italiane, era operativo e decisionale alle emergenze (e ce n’erano parecchie). Da un giorno all’altro ha tirato il freno e ha bloccato il Freccia Rossa del suo ultimo viaggio prima che giungesse al capolinea. E come Regis è sceso prima, con le gambe sue, e si è incamminato verso il suo sentiero di fantasia. I due non si conoscono ma le loro storie, per quanto diverse sono, si assomigliano. Per quel pizzico di dandismo che le solletica, per la vena di stravaganza che le difende e per i loro comuni desideri, che superano i bisogni. E poi c’è il mistero del vivere, prima e dopo gli applausi.               

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