Raoul Precht
Periscopio (globale)

Zanzotto e la fatica

Ritratto di Andrea Zanzotto, uno dei più singolari protagonisti della poesia del Novecento. La sua ricerca sul linguaggio, fino a forzare le parole, ha sempre presupposto una analoga "ricerca" da parte del lettore. Per arrivare, entrambi, al nocciolo delle cose

In una cultura nazionale segnata nel Novecento prima dall’ermetismo, poi dallo sperimentalismo delle neoavanguardie, il lettore di poesia dovrebbe essere avvezzo a una certa oscurità del dettato poetico. Il caso di Andrea Zanzotto è e resta quindi in certa misura singolare, poiché molte delle riserve che vengono espresse non tanto dalla critica, quanto dai lettori, riguardano appunto la difficoltà di capirne la poesia, la sua ormai quasi proverbiale illeggibilità. Zanzotto, di cui ricorrono nel giro di una settimana tanto il centenario della nascita quanto il decennale della morte, ha avuto, come tutti, varie fasi e vari momenti, ma la presunta illeggibilità riguarda un lungo periodo, in pratica gli ultimi quarant’anni di una lunghissima carriera poetica, che va dagli anni ’50 agli anni ’10 del nostro secolo.

Lungi dall’essersene troppo preoccupato, in alcune interviste lo stesso Zanzotto ha anzi sostenuto che la fatica che incombe al lettore è e deve essere identica (sebbene di segno opposto) a quella fatta dal poeta al momento di cercare le proprie modalità espressive, e che anzi il poeta deve potersi aspettare dal lettore (un lettore per definizione forte) uno sforzo ermeneutico a cui quest’ultimo non può sottrarsi. Affermazione un po’ supponente, si dirà, che non tiene conto del fatto che il lettore, proprio come il cliente, ha sempre ragione (ed è sempre meno incline a fare sforzi): ma è proprio questo il postulato che un poeta puro come Zanzotto avrebbe, a ragione, negato. Così come chiunque scriva, tramite la sua stessa ricerca, apprende, ecco che il lettore deve compiere uno sforzo analogo per acquisire qualcosa che si aggiunga al vissuto quotidiano. Senza questo minimo impegno, senza questa fatica, sembra dirci Zanzotto dall’alto della sua esperienza di maestro di scuola e di appassionato pedagogo, tutto è vano.

Ci sono poeti che prendono le mosse dalla realtà, o meglio dalla loro percezione della stessa; quanto a Zanzotto, sebbene passato in gioventù attraverso una fase neo o post-ermetica (da ritardatario, come ebbe a definirlo Franco Fortini), egli parte semmai dal linguaggio, che acquista sempre più, con il passare degli anni, una dimensione quasi totalizzante, fino ad accogliere quelle che possono parerci stranezze e idiosincrasie: distorsioni in campo lessicale, l’uso di una grammatica fin troppo libera (si pensi all’isolamento di prefissi e suffissi, trattati come termini a se stanti), violazioni della sintassi, pseudo-etimologie, brusche interruzioni del discorso poetico, fino a sfociare, sia pure in modo (velatamente o esplicitamente) ironico, in una semi-afasia. Ma la poesia di Zanzotto si basa anche su un sostrato culturale dagli orizzonti amplissimi, che va dai classici greci e latini a Dante e Petrarca – dei quali peraltro, accogliendoli entrambi, elabora una sintesi abbastanza rara nel Novecento, in cui di solito i poeti si sono schierati da una parte o dall’altra –, e poi da Leopardi, altro riferimento fondamentale, alla saggezza dei proverbi, spesso in dialetto, dai riferimenti scientifici e naturalistici a quelli religiosi, dal petèl, la lingua dell’infanzia, con le sue filastrocche, alle canzonette e perfino agli slogan pubblicitari, quasi senza indicare, ammesso che vi sia, un ordine e una gerarchia tra i materiali di cui si serve. E senza provare alcuna remora nel combinare la grande tradizione aulica e i suoi connotati prevalentemente tragici con un abbassamento del dettato in senso appunto ironico e dunque potenzialmente comico o, come avrebbe poi detto ancora Fortini, nel combinare manierismo e oltranza.

È una poesia, la sua, che si sviluppa sempre più come reazione alle brutture del mondo, tanto che Zanzotto ha potuto essere considerato il primo poeta-ecologo o “ecologista” della nostra letteratura; una poesia che registra le ferite che vengono continuamente e impunemente inferte dall’uomo alla natura e alla cultura, in particolare quella contadina – e il paese di Pieve di Soligo, dove trascorre gran parte della vita, diventa per questo una sorta di osservatorio privilegiato. Una poesia che quindi si duole anzitutto delle alterazioni al paesaggio, della devastazione e del degrado a cui tutto è sottoposto e da cui anche il nostro inconscio finisce per essere inquinato, trovando un corrispettivo in una parola poetica sempre più frantumata. Se in una delle prime poesie, A questo ponte, del 1942, poteva scrivere: “Le danze segrete delle acque / e degli alberi / intorno al sole domato / io sento nel freddo del prato / che affonda sotto il ponte”, registrando ancora una sostanziale identità e complicità fra io e natura, e nel 1960, nel sonetto “petrarchesco” Notificazione di presenza sui Colli Euganei (nelle IX Ecloghe, del 1962), chiama i colli “in sì gran parte specchi a me conformi”, ben presto, nella raccolta La beltà (1965), il rapporto dell’uomo con la natura si trasforma in “oltranza oltraggio”, per riprendere il titolo significativo di uno dei principali componimenti. Il compito della poesia risiede allora nell’intercettare i messaggi che la natura, malgrado quest’oltraggio permanente, continua a mandarci, decrittarne e insieme rispettarne il mistero.

Gli accostamenti sono sempre originali e spiazzanti, se non inauditi: si pensi solo al Galateo in bosco (1978), dove il manuale di Monsignor Della Casa è irrelato a uno scenario cruento, quello dei caduti della Prima guerra mondiale sulla collina del Montello. Citazioni più o meno celate dai surrealisti, da Eluard, da Rilke e dall’amatissimo Hölderlin (con quest’ultimo in certe poesie avviene quasi un transfert) tradiscono un’acquisizione estremamente consapevole delle fonti, dietro la quale si costruisce e a volte si decostruisce un io nevrotico e problematico, e spesso apertamente fragile e indifeso. Nella netta separazione che Zanzotto opera fra significante e significato, in omaggio alle teorie freudiane e poi soprattutto lacaniane alle quali nell’ultima fase s’ispira convinto della prevalenza nella psiche umana del significante sul significato, l’uomo si fa sempre più, per dirla con Hölderlin, appunto, “un segno senza significato”. Ed è qui che con ogni probabilità si situa anche la singolarità e il limite della lezione zanzottiana, il motivo per cui difficilmente potrà essere ulteriormente sviluppata dalle future generazioni poetiche.

Non è certo questa la sede per un discorso critico dettagliato, e a Zanzotto in tutti questi anni non sono mancati del resto riscontri critici di enorme spessore, fin dalla sua “scoperta” da parte di Ungaretti nei primi anni ’50, passando poi all’attenta lettura che delle sue opere hanno fatto non solo i maggiori critici letterari, ma anche colleghi e complici in poesia come Montale, Fortini, Gramigna, Betocchi, Caproni e Pasolini, per non citare che qualche nome dei più cospicui. (Rimando a questo proposito alle diverse raccolte, fra cui primeggia per completezza quella mondadoriana curata da Stefano Dal Bianco nel 2011.) Va però rilevato almeno come, senza mai neanche tentare di dare una risposta diretta all’eterno quesito sull’essenza della poesia, Zanzotto abbia saputo avvicinarsi per immagini – da poeta, appunto – a una possibile definizione. Come quando in un’intervista la definì “prospettiva rastrellante che porta in un punto di fuga; qualcosa che spiazza il senso dell’ovvio, del banale e di tutto ciò che è comune”. O come quando se ne uscì, difendendo al contempo la propria acclamata illeggibilità, con la bella metafora del filo elettrico troppo sottile, nel quale “la corrente passa a fatica, si sforza e genera un fatto nuovo, la luce o il colore (…) un ‘cortocircuito’, una oscurità da eccesso, non da difetto”.

Quest’ultima immagine rimanda del resto anche a un altro concetto caro a Zanzotto, quello della fugacità sia della poesia, sia della nostra meteorica presenza al mondo. Talché tanto il sempre più derelitto paesaggio che abitiamo, quanto noi stessi, nella nostra finitudine, finiamo per essere presenti e assenti allo stesso tempo, come un dispettoso gatto di Schrödinger, e questa presenza-assenza si rivela appunto nella frantumazione e nella presunta afasia del linguaggio della poesia, ridotto, per riprendere un’altra fortunata metafora, a un mero graffio sulla pelle di un mondo che è passato nel secondo dopoguerra “dai campi di sterminio allo sterminio dei campi”. La disgregazione esperita dalla poesia, sempre ai limiti del silenzio, del mutismo, non è che il riflesso dell’esigenza zanzottiana – soprattutto nelle tre raccolte principali dell’ultimo ventennio, Meteo, del 1996, Sovrimpressioni, del 2001 e Conglomerati, del 2009 – di esprimere l’inesprimibile, ciò che è di per sé illeggibile, una volta stabilito che né l’italiano, né il latino, né il dialetto (lingua che forse prevale a livello inconscio, ma non per questo sarà da lui mitizzata) sono sufficienti a dar conto della catastrofe assoluta, del “tappeto marcio di futuro” cui si vorrebbe, ancora e malgrado tutto, dar voce.

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