Alessandro Marongiu
Addio Alitalia/2

Volo per Monteluco

Dalle mitiche memorie giovanili - per una vacanza in colonia, in Umbria - alla rarefazione della realtà recente. La “compagnia di bandiera” è, da molto prima che se ne decretasse la fine dopo lunga agonia, un pallido ricordo: come l’Italia

È il 1986, è estate, ho otto anni, come qualche decina di altri bambini indosso un cappellino giallo che ci è stato dato lì sul posto dagli accompagnatori che ci hanno preso in carico e, proprio come tutti gli altri bambini, in valigia ho canotte e mutande con su scritto a pennarello indelebile il mio nome e un numero di identificazione, che nelle tre settimane successive consentiranno a ognuno di noi di riconoscere la sua biancheria ed evitare che finisca a coprire carni e pudenda di chissà chi. Siamo i figli dei dipendenti statali, siamo i bambini dell’Enpas, il fu “Ente nazionale di previdenza e assistenza per (appunto) i dipendenti statali”, e siamo pronti a fare una piccola rampa di scale che da Fertilia ci porterà a Roma, da cui poi ci sposteremo in pullman verso l’Umbria, più precisamente verso Spoleto, per raggiungere la meta finale: la storica colonia di Monteluco.

È il mio primo viaggio per aria, sono emozionato ma non spaventato, e quando cominciano le manovre per il decollo ecco che su una vicina striscia di asfalto una Ferrari ingaggia per una manciata di secondi una gara di velocità con il nostro aereo. Non mi interessano macchine e motori – né mi interesseranno mai in seguito, del resto –, ma ho già una qualche idea di cosa significhi “Ferrari”: sicuramente un’idea precisa ce l’hanno i miei compagni, che non credono ai loro occhi e mi contagiano un principio di elettricità. A me, a dirla tutta, ha colpito molto di più trovare, appena prima di metter piede sul velivolo, una postazione dalla quale una signorina in divisa ha distribuito a ogni passeggero, perfino a me bambino, un quotidiano (a chi aveva della sfrontatezza anche due: io al tempo di sfrontatezza non ne ho, e a malincuore rinuncio alla Gazzetta dello Sport). Ci sarebbe l’imbarazzo della scelta, ma io non esito: prendo la Repubblica, il giornale che entra ogni giorno in casa mia. Mi sento un gran signore: hostess che mi sorridono e mi offrono succhi e bibite per le quali non devo pagare (menomale, perché ho una dotazione di 30.000 lire, e se ne riporto indietro tanto meglio), carrelli carichi di profumi di marchi pregiati con scritte in oro che risplendono quando incocciano i raggi del sole, e tra le mani un quotidiano ricevuto completamente gratis – alla faccia di mio padre, che mattina dopo mattina per averlo deve mettere mano al portafoglio.

È il mio primo impatto con Alitalia: se la percezione non è quella del lusso, è perlomeno quella del benessere. E dello stile e dell’eleganza. È infatti lì, durante quel primo volo, che comincio, foss’anche inconsciamente, a cucire assieme i pezzi: a capire cosa si intenda con quella parola – “italianità” – e con quella formuletta – “l’italianità nel mondo” – di cui tanti si riempiono la bocca e che a tanti fa gonfiare il petto. Intanto, al ritorno non mi faccio fregare: prendo la Gazzetta, che la Repubblica l’avrà comprata mio padre. Nel 1987 e nel 1989, sempre in direzione Monteluco, la questione invece me la lascio alle spalle senza pensarci un attimo: quattro tratte, otto quotidiani.

Passa qualche anno. È la tarda estate del 1993, ho appena superato con un buon voto l’esame di riparazione di latino, e il regalo dei miei genitori è una settimana nella Capitale da mia zia Pina e da mia cugina Eleonora. Parto sempre da Fertilia ma stavolta, sorpresa, niente postazione con signorina in divisa e soprattutto niente quotidiani in omaggio. Forse, penso, al rientro andrà meglio: magari si è trattato di un disguido, o magari il problema sta nell’aeroporto sardo. Da Fiumicino, però, stessa storia: niente signorina e niente quotidiani. Io ancora non lo so, non lo posso sapere, perché non ho i mezzi per comprenderlo né capacità di preveggenza, ma quell’assenza è uno dei primi segnali di scricchiolio. Tanto per l’Alitalia quanto per il Paese: la strada verso la decadenza, per entrambi, è dietro l’angolo, e la percorreranno paralleli.

Passano ulteriori dieci anni. Nel frattempo sono arrivate le compagnie low-cost: che dell’italianità, dello stile e dell’eleganza non sanno che farsene. Al posto dei profumi da ricchi vendono Gratta e Vinci, hanno hostess e steward spettinati e sempre pronti a farti intendere che se stipi male i bagagli in cabina li fai lavorare di più e loro sono stanchi e vorrebbero, semmai, lavorare di meno, hanno velivoli per i quali è logica conseguenza che, una volta toccato il suolo, i passeggeri facciano scattare l’applauso per lo scampato pericolo. Ma la verità è che a nessuno o quasi di tutto questo importa granché: se puoi volare da Fertilia a Pisa con 1,98 euro (io l’ho fatto: e il prezzo includeva sia l’andata che il ritorno), puoi ben accettare di comprarti il giornale alla prima edicola utile, di rinunciare per un paio d’ore a un sorriso (che sai essere imposto e quindi falso, peraltro), e pure di rischiare, in una certa misura, di precipitare di sotto.

L’Alitalia è ormai l’extrema ratio, il biglietto che compri se davvero non hai più neanche un’ultima alternativa al mondo. È, da molto prima che se ne decretasse la fine dopo lunga agonia, un pallido ricordo: come l’Italia.


Le fotografie sono di Roberto Cavallini

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