Lidia Lombardi
A proposito di “Venezia. Infinita Avanguardia”

Venezia e il mito

Il docu-film su soggetto di Didi Gnocchi con la regia di Michele Mally ricostruisce i mille seicento anni di una meraviglia unica al mondo. Passato e presente si intrecciano inseguendo un'idea guida: Venezia è sempre stata il simulacro della modernità

Nel Milletrecento la spinta innovativa dell’Arsenale faceva di Venezia la Dubai di oggi. La voce di Lella Costa inanella il paragone a oltre tre quarti della proiezione di Venezia. Infinita Avanguardia, il docu-film che celebra i sedici secoli dalla fondazione della città-miracolo (così come una opulenta mostra allestita fino a marzo prossimo in Palazzo Ducale) e che sarà nelle sale l’11, il 12 e il 13 ottobre, per poi essere proiettato nel 2022 in cinquanta Paesi sparsi nel mondo. Succedeoggi lo ha visto in anteprima, con la curiosità per il titolo, che contraddice quanti sono invischiati nelle glorie del passato lagunare. E invece proprio questo fa la pellicola prodotta da 3D e Nexo Digital su soggetto di Didi Gnocchi che firma anche la sceneggiatura con Sabina Fedeli, Valeria Parisi, Arianna Marelli, regia di Michele Mally: Individua nella storia di Venezia tutti gli snodi di modernità, ma li trova anche negli anni presenti, come volano verso il futuro, quello stesso anelito che a metà Ottocento realizzò il ponte ferroviario dalla terraferma verso le isole lagunari disposte a forma di pesce, con la spina dorsale del Canal Grande.

 E pensare che i Futuristi scrissero fiamme e fuoco contro la “decadente” città, meta di malinconici intellettuali passatisti, messi alla berlina dal Manifesto marinettiano del 1910, poi declamato sulla scena da Carmelo Bene. Invece, a dispetto di quanti lamentano l’esodo dei veneziani, vibranti immagini restituiscono la vivacità dei tanti istituti e accademie estere che fanno approdare in laguna i propri iscritti, un richiamo internazionale per chi fa moda, arte, cinema, turismo, audiovisivo, progettazione architettonica e ingegneristica, meccanica, idraulica, cantieristica.

Non si intenda però che il docu-film si snoccioli come una Settimana Incom: ha invece una valenza visionaria e poetica, individuando storie e personaggi introdotti come flashes dalla narrazione di Lella Costa. E agganciati le une agli altri dalla riflessione ad alta voce dell’attore Carlo Cecchi, pari a un austero (forse troppo) nobiluomo intento a sfogliare libri antichi o a osservare scorci di canali e trinati palazzi dalla finestra del suo set/dimora. Gli fa controcanto una giovane impegnata a suonare il piano, là in una biblioteca, qua in antiche stanze, ancora in calli e campielli, spesso illuminato il volto e le mani sulla tastiera da un metafisico pulviscolo dorato: è Hania Rani, talentuosa pianista polacca che svolge il ruolo di se stessa impegnata a comporre la colonna sonora del film: la quale infatti si distende sempre più compiutamente da un fotogramma all’altro, fino a essere suonata nella sua interezza nell’epilogo.

Carlo Cecchi

Si rimanda la leggenda di una città nata il 25 marzo del 421 dalle capanne di quanti sfuggivano alle incursioni dei Unni e dei Longobardi rifugiandosi tra i canneti della laguna ed erigendo sulle rive del Canal Grande, a Rialto, la piccola chiesa di San Giacometo. Il viaggio nel tempo, avanti e indietro, si dipana come un’esperienza sensoriale: ecco le inquadrature paesaggistiche restituite dai droni, ecco la fotografia capace di catturare la specifico di Venezia, il vibrare della luce al tremolio dell’acqua, le rifrazioni cromatiche dei palazzi nel liquido sottostante. Canaletto dipinge il paesaggio urbano come fa ora la macchina da presa, Veronese azzarda le prospettive più improbabili per i suoi personaggi mitici che osservano l’umanità dall’alto di soffitti tardocinquecenteschi, Tintoretto realizza con Il Paradiso l’opera pittorica più mastodontica per celebrare il governo della Serenissima. “Modernità è essere qualcosa che muore ma che rinasce”, riflette Cecchi. Si indugia sullo sfondo di Ca’ Rezzonico, museo del Settecento veneziano, dove volle abitare Cole Porter e suonare Night and Day. Wagner compose in Laguna il Tristano e Isotta e in Laguna morì. Nell’Hotel de Bains, al Lido, Thomas Mann scrisse Morte a Venezia. E Stravinskij volle essere seppellito in questi luoghi, così scorrono sul megaschermo le immagini della bara giunta nel 1971 da New York, coperta di fiori e cullata da una gondola.

 Innovazione fu la moda di Mariano Fortuny, che liberò le donne da corpetti e sottogonne, inventando vesti fluttuanti e sensuali, plissettati buoni a svelare le forme. Venezia è donna, suggerisce il commento. Donne intraprendenti, come la prima laureata in filosofia, donne abilitate dalle leggi dogali a ereditare e investire il patrimonio affidandolo ai mercanti imbarcati verso l’Oriente. Donne dai cento uomini, lasciate sole dai mariti mercanti e marinai a crescere i figli, libere di scegliere, di tradire: non solo durante in Carnevale, ma tutto l’anno come Peggy Guggenheim, sganciata dal puritanesimo statunitense, mecenate e amante dei suoi artisti. Spigliate le donne di Hugo Pratt, che lavorava a Malamocco, presso quella bocca di porto dove ora si levano, metalliche balene, le paratie del Mose. Mentre si ricorda la battaglia di Emilio Vedova affinché i Magazzini del pesce non venissero mutati in piscina per turisti irriverenti.

Al Festival del Cinema, nel 1931, arriva Charlie Chaplin, nel ’34 si proietta la prima pellicola con nudo di donna, Hedy Lamarr, scandalo previsto eppur permesso, mentre pullula di ospiti l’Hotel Hungaria, facciata sensazionale ricoperta di maioliche. E fanno sensazione anche gli elefanti del Circo Orfei – rimandati da un filmato d’epoca in bianco/nero – in fila indiana sul ponte degli Scalzi, perché i pachidermi sui traghetti non c’entrano proprio. Calatrava ne ha ideato un altro a fianco. Ma tanti altri artisti contemporanei creano opere “parallele”. In uno dei numerosi interventi che punteggiano il film, il cinese Ai Weiwei illustra il suo lampadario forgiato a Murano: alle corolle multicolori di vetro soffiato subentra nella sua gigantesca opera il nero, un barocco contemporaneo che invece di fiori intreccia teschi, manette, scheletrini. Memento mori, per poi rinascere. Venezia si tramanda così.

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