Danilo Maestosi
Al Palazzo delle esposizioni di Roma

Scienza dell’assenza

Tre mostre per un solo percorso: quello che vorrebbe portare alla nascita di un "museo della scienza" a Roma. Ma le tre iniziative, salvo quella "storica" che introduce il tema con una serie di curiosi reperti, paiono fondamentalmente casuali

Tre mostre cucite insieme da uno stesso filo. La scienza che ripercorre a ritroso il percorso della sua storia a Roma. La scienza che cerca di documentare i paradossi, i fallimenti e le vie d’uscita del regno d’incertezza in cui è precipitata una delle sue discipline di punta, la fisica quantistica. E infine la scienza che fa da specchio ai linguaggi dell’arte contemporanea, li alimenta e ne trae alimento. Tre stazioni per arte e scienza il titolo dell’iniziativa appena inaugurata al Palazzo delle Esposizioni di via Nazionale dove terrà cartellone fino a fine febbraio.

In esclusiva: grosso azzardo per questo grande contenitore multiuso gestito dal Campidoglio, che ha vissuto le sue stagioni migliori tra gli anni 80 e 90 quando, concentrandosi sui linguaggi dell’arte, si era trasformato in una passerella dei protagonisti del trapasso tra moderno e contemporaneo con una programmazione di grandi mostre che prendevano a modello il Grand Palais di Parigi e altre di taglio più sofisticato, in grado di aggregare e consolidare ampie fasce diverse di pubblici cittadini e turisti. Ma anche di offrirsi, sfruttando al meglio la duttilità dei suoi spazi come punto di riferimento della sperimentazione teatrale e di parziale compensazione al vuoto che si è aperto con la scomparsa dei cineclub.

Funzionavano persino come richiami di movimento che contribuivano a fidelizzare il contatto con fruitori in transito il ristorante al piano superiore, il bar mensa al pianoterra, e la libreria specializzata a livello strada. Una dote che Il Palaexpo ha progressivamente disperso, per le indecisioni, l’isolamento, la carenza di fondi, di idee e di prestigio che hanno caratterizzato la politica culturale del Campidoglio dell’ultimo ventennio.

Giusto, come si sta provando negli ultimi mesi, sulla scia di un vago ma sentito manifesto d’intenzioni che ha caratterizzato la gestione dell’assessore alla cultura uscente Luca Bergamo, introdurre il tema della scienza tra i programmi del Palaexpo, anche per ampliare l’arco dell’offerta che a Roma ha sempre concesso a questo filone solo briciole d’attenzione. Rischioso e a mio avviso sbagliato concedergli una ribalta da monopolio, specie in una fase delicata come questa, in cui le restrizioni e le paure della pandemia hanno falcidiato la platea degli spettatori abituali, se non si fa tesoro dei risultanti numericamente deludenti degli appuntamenti precedenti e non si riesce a trasformare l’occasione in un evento da non perdere e per tutti i palati.

Dietro questa triplice mostra c’è un cartello di partecipazioni molto ampio. E si intravede la volontà di un punto d’arrivo che non si può non condividere: la realizzazione a Roma di un museo della scienza, destinato a colmare uno dei vuoti più vistosi per una grande capitale come la nostra. È un progetto che, avanzato da Quintino Sella e poi inabissato come molti sogni su Roma capitale, sta a poco a poco riprendendo corpo: l’ultima ipotesi che si è affacciata è di destinare a questo scopo l’area della ex caserme di via Guido Reni, di fronte al Maxxi. Ma il tema non è mai entrato nelle agende politiche: nessuno dei candidati alle elezioni l’ha inserito tra le priorità di programma.

Manca un vero progetto in fase di elaborazione avanzata. Un livello di coinvolgimento, dall’alto e dal basso, analogo a quello che ha portato alla realizzazione dell’Auditorium al Flamino, sostenuto da una massiccia campagna d’opinione. Manca – ed è la carenza più sintomatica – ogni consapevolezza della scala di rilevanza urbana e internazionale che dovrebbe innervare una struttura così rilevante. Non si parla – un segnale anche questo – di mettere in moto un concorso di architettura, che nel caso dell’Auditorium si rivelò una leva qualificante.

Meglio che niente, se almeno si torna a parlarne a rifletterci su. Tre stazioni, però, non bastano, se non c’è una tratta ferroviaria che indichi il cammino da proseguire. E se purtroppo – qui si entra nel merito della mostra – si parte col piede sbagliato. Già, perché dei tre capitoli della rassegna, solo il primo sembra davvero adeguato alle ambizioni divulgative dichiarate e messe in campo.

Scandita in nove diversi sintetici siparietti, uno per ogni disciplina, è una parata di fascinosi cimeli. Alcuni che riemergono dal passato remoto. Come il cranio e le zanne, ancora invischiati in una coltre di fango essiccato dell’elefante preistorico rinvenuto negli anni Trenta durante lo smantellamento della Collina Velia e poi nascosto in magazzino. O come il cranio di Neanderthal, tra i meglio conservati al mondo, nonostante il foro del piccone che l’ha casualmente dissepolto.

Altri che ci proiettano all’indietro, in un tempo non ancora concluso, quello delle esplorazioni spaziali: ecco con la sua goffa veste cilindrica datata anni ’60 il satellite San Marco, capolavoro della tecnologia italiana, ed ecco il ventre scoperchiato del razzo Pioneer nel quale fu incassato per poi essere lanciato con successo nello spazio.

Altri che parlano invece al futuro. Come la camera a tenuta stagna e il pesante contenitore d’acciaio progettato dall’Enea per coltivare vegetali indispensabili per nutrire i pionieri delle stazioni spaziali. O il robottino, con la faccetta da bimbo da fumetto, costruito dal Cnr per studiare nuovi modi di comunicazione interattiva tra uomini e macchine d’intelligenza artificiale.

E poi una galleria di personaggi che a Roma e da Roma hanno contributo in maniera determinante al progresso della scienza in tutti i campi. Da Galileo – ecco il telescopio con cui spiava il sole e le stelle – a Enrico Fermi. Tra le tante chicche la sua pagella da secchione al liceo Albertelli e il modulo del ministero delle corporazioni con cui chiedeva il brevetto per la scoperta della fissione nucleare, che ottenne solo negli anni 50 dopo una dura battaglia legale. Da Giovanbattista Grassi e Camillo Golgi, pionieri della lotta contro la malaria, a Lucio Lombardo Radice ed Emma Castelnuovo, maestri di un nuovo modo di ancorare alla realtà lo studio e l’insegnamento della matematica. La storia della scienza insomma non come un dominio astratto e irraggiungibile, ma ritradotta anche ai profani come un campo di battaglie e scoperte dell’ingegno umano.

Un buon punto di partenza per la costruzione di un museo ad hoc, questa raccolta di tesori e testimonianze prestate da altri musei disciplinari già esistenti e pronti, stando ad uno dei curatori, Fabrizio Russo, a collaborare. Ma solo una prima dote, in qualche modo già collaudata, per attenuare le distanze tra la scienza ed un pubblico da coinvolgere e informare che il progresso tecnologico ha paradossalmente ancora più allontanato, imbottendolo di informazioni che non sa elaborare, nell’illusione di una conoscenza senza acquisizione, comprensione e senza controllo del sapere.

È il salto in avanti di una buona divulgazione su cui si incaglia la seconda mostra, che chiama alla ribalta l’istituto di fisica della Sapienza, proprio quando la conquista del Nobel ad uno dei suoi docenti di punta, Giorgio Parisi, gli riserva i riflettori dell’eccellenza e dell’attenzione. Il tema è proprio uno dei campi su cui Parisi ha concentrato le sue innovative ricerche. Il principio di indeterminazione, ormai acquisito come una bussola, dalla fisica quantistica. E la necessità, cui vincola tutti noi umani affamati di verità, di convivere con l’incertezza. Titolo giustamente scelto per questo secondo capitolo per ancorare la curiosità verso un sentimento comune.

In un fascinoso saggio in catalogo proprio Parisi ci spiega come la scienza abbia risolto questo dilemma apparentemente paralizzante, indirizzandosi con strumenti e metodi sempre più affinati verso il calcolo delle probabilità. Dal canto loro i curatori della mostra si limitano ad una sintetica carrellata di esempi in cui questo condominio con l’incertezza abbia prodotto frutti concreti. Dalla meteorologia alla sismografia, alle previsioni di borsa. Un compitino corretto, illustrato sala per sala da diagrammi e simulazioni, che scivola via senza presa emotiva. Davvero una brutta pagella se il punto d’arrivo di questa stazione fosse davvero la creazione di un museo della scienza. Perché chiamarsi fuori della storia ignorando esperienze di divulgazione collaudate da altri e numerosi modelli, come quelli che hanno fatto la fortuna della città della scienza della Villette a Parigi e sfruttano l’eloquenza didattica e spettacolare del gioco?

Chissà magari gli organizzatori del Palaexpo speravano di correggere il tiro con la terza mostra, che invitava all’impresa la fantasia visionaria e spregiudicata dell’arte, sottolineata da un titolo, Ti con zero che rende omaggio all’estro combinatorio di un noto racconto di Italo Calvino. Ma anche loro hanno in gran parte tradito l’attesa, limitandosi nella selezione delle opere in mostra a documentare, credo involontariamente, tra le tante simmetrie tra arte e scienza, il fatto che entrambe hanno enormi difficoltà a dialogare stabilmente sul terreno del presente e del futuro con un proprio pubblico.

Una voragine di comunicazione che si è aperta con la sbornia concettuale delle avanguardie vecchie e nuove, quando alla visione dell’opera, condannata in molti casi alla irrilevanza o allo sberleffo, si è sostituito il richiamo del processo che l’ha generata. Alla voce in presa diretta dell’artista quella del critico che ne giustifica o ne inventa le motivazioni. O del mercato che si specula su.

Anche la parte storica di questa terza rassegna, inquadrata nel grande salone del pianoterra è, a nostro avviso, costellata di evidenti lacune di empatia e coinvolgimento dello spettatore. Ecco un lavoro, datato 1974, di Alighiero Boetti e intitolato Storia naturale della moltiplicazione. A sintetizzarlo, una sequenza di dodici fogli quadrettati coperti da macchie che oscurano uno o più segmenti, crescendo in progressione matematica. Un esperimento di fantasia e rigore, il cui fondamento balza alla mente solo attraverso la lunga e pletorica spiegazione del saggio in catalogo e con più difficoltà attraverso un’altrettanto lunga e a volte indecifrabile didascalia alla parete. La ragione come motore di un gioco, che presuppone per essere davvero apprezzato solo la conoscenza approfondita della propensione all’ironia e all’autoironia dell’artista. Che pure poteva essere almeno evocata da uno dei suoi tanti camuffamenti d’identità. Chi non lo sa resta appeso in una terra di nessuno, popolata solo dalla voce pedante degli esperti.

Ecco, ancora più eloquente di questo vuoto di comunicazione un altro lavoro, firmato da Gino De Dominicis, acclamato e spericolato equilibrista sul filo tra teatro e provocazione. È una grande pietra posata in terra come una reliquia parlante. Nella mostra in cui la installò lui era presente a raccontarci che scommessa beffarda le aveva affidato: la possibilità di spostarla attraverso un esercizio di levitazione, una delle tante pratiche orientali allora molti di moda. Qui, la sua assenza e la morte che l’ha da tempo tolto di scena trasformano quel sasso in una reliquia muta, come le ossa di un santo posticcio espulso dai calendari ecclesiastici.

Poco stimolante anche lo spettacolo delle altre sale, riservate ad artisti in attività che, i piedi solidamente aggrappati alle convenienze del contemporaneo, si rivolgono alla scienza, più che per arricchirne gli orizzonti, per rubarne come diploma concettuale procedimenti di laboratorio.

Partorendo esperienti di simulazione che scivolano in una fantascienza addomesticata e priva di risonanze narrative come il laghetto di piante, parto di sedicenti cianobatteri che Alexandra Daisy Ginsberg fa spuntare su Marte in via di colonizzazione. O scenari di cartapesta da film di serie C senza budget, come lo spicchio di suolo lunare che Roman Ondak, dopo aver consultato la Nasa, ricostruisce in una sala, riempita di terriccio rosso da campo da tennis e filari di pietre smussate. Che ci invita a calpestare.

A riportarci alla realtà uno stuoino di plastica steso all’uscita, dove il visitatore è obbligato a scrollarsi la polvere dai piedi.

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