Lidia Lombardi
“Sette fiabe gotiche” a quattro mani

Noir per bambini

Dopo le “Favole della nonna”, Paola Benadusi Marzocca estrae dal novelliere della giornalista e scrittrice dell’800 Emma Perodi, storie “da brivido” con atmosfere che avrebbero fatto gola a Hitchcock. Un mezzo per esorcizzare paure infantili e anche per conoscere luoghi, usi e costumi del Bel Paese

C’era una volta più che giocoso, o incline ad alimentare la sconfinata fantasia dei bambini, diventa l’avvio di racconti allucinati, distopici, horror tout court. È l’angolazione che Paola Benadusi Marzocca sceglie in questa “seconda tappa” dentro il novelliere di Emma Perodi, infaticabile giornalista e scrittrice, un mestiere poco esercitato dalle donne alla sua epoca, il secondo Ottocento. Due anni fa, infatti, Benadusi si cimentò sulla scelta e sulla riscrittura di sette delle perodiane Favole della nonna privilegiando quelle a sfondo storico (la battaglia di Campaldino, per esempio), etnografico (gli usi, i costumi, le famiglie di un determinato territorio italiano, il Casentinese), o decisamente fantasy, popolate da folletti, fate, maghi.

Ora invece accende i riflettori sull’aspetto noir della raccolta. Ed ecco allora le sequenze da brivido, le apparizioni inquietanti, i ripetuti tre passi nel delirio di queste Sette fiabe gotiche pubblicate come le precedenti da Tau Editrice (128 pagine con illustrazioni in bianco/nero, 14 euro). Ma se gli echi sono nordeuropei, leggi i grandi novellieri tedeschi, e i meccanismi dei sortilegi, dei travestimenti, delle discese nell’oltretomba si possono montare e rimontare avendo presente il Propp di Morfologia della fiaba, è la cornice a fare delle novelle di Perodi-Benadusi un unicum: è appunto l’alta valle dell’Arno lo scenario, ricorre in più di una occasione la città di Bibbiena – pia o corrotta, a seconda dei decenni – quella Pontassieve che prende il nome dal fiume Sieve reso traversabile grazie al ponte mediceo, o Arezzo, o Piancastagnaio. Si svolgono qui feste stagionali, come il Carnevale che vede in scena compagnie di figuranti come i Piazzolini e i Fondaccini, il falò del Pomo Bello, oppure le processioni alla volta di cappelle e chiese costruite là dove la fede popolare attesta miracoli. Perché un altro aspetto rende originali questi racconti: il miscuglio di sacro e profano, di santi e diavoli, portati sulla scena anche in questo caso dalla tradizione orale diramatasi da borghi medievali, da castelli e feudi, da nobili e contadini. 

Ecco allora il quid che affascina chi ama il Bel Paese: le fiabe riattualizzate da Benadusi che è intervenuta sulla lingua e sulla semplificazione della trama costituiscono insieme un talismano per guardare dentro le proprie paure, quelle che ci portiamo appresso dall’infanzia, e un vademecum per esplorare la nostra bella Italia, grazie ai commenti storico-biografici di Alberta Piroci Branciaroli che al termine di ogni capitolo conduce il lettore in un itinerario del Casentino, dal maniero dei conti Guidi di Porciano all’abbazia di San Godenzo, da Santa Maria delle Grazie ad Arezzo fino alla Basilica di San Marco a Firenze, impreziosita sull’altare dal crocifisso del Beato Angelico.

Architettura e natura, dunque. La seconda entra in scena con boschi popolati da giganteschi alberi, nei cui tronchi si celano fenditure che sembrano portare al centro della terra. Il sottosuolo, gli inferi, il mondo dei poltergeist (i non seppelliti che ululano per ottenere una degna sepoltura) sono spesso i protagonisti. Succede in una delle fiabe più simboliche, “La fidanzata dello scheletro”. Narra di una bella e ambiziosa fanciulla, Amabile, che non s’accontenta di accettare la promessa di matrimonio da un agiato cavaliere, ma che, in attesa del suo ritorno, accetta la corte di uno sconosciuto che le porge una rosa e la promette mari e monti. Sennonché quel misterioso spasimante nasconde sotto il mantello lo scheletro del primo fidanzato, ucciso da due predoni. Il quale si vendicherà dell’infedeltà di Amabile ghermendola e soffocandola per condurla con sé sottoterra. Ecco allora il ricorso al frate Cirillo, che cerca, anche se invano, di salvare la giovane, escogitando la maniera di annullare i malefici di due diavoli presentatisi sottoforma di un corvo e di un topo. L’uno anela ad avere le zampe e l’altro le ali. Diventeranno un mostruoso essere, perché il corvo ingoierà il topo tutto intero e questi farà uscire dal ventre tranciato dell’uccello le sue orride zampette.

È l’esempio di quanto fervida sia l’immaginazione delle Perodi, che è imbevuta tuttavia dalla tradizione narrativa, mutuando in questo caso il tema ricorrente di Amore e Morte. Altrove spuntano oscure presenze sotto la crosta terrestre. Avviene ne “Il diavolo e il Romito”: qui il Maligno per riconquistare, spaventandoli, gli abitanti di Bibbiena resi pii dalle prediche settimanalmente fatte in piazza da un solitario nobiluomo, sfodera dall’intrico delle radici nella foresta serpenti, rospi, uccelli predatori. E per piegare definitivamente la popolazione ne attirerà i bambini dentro una caverna, al pari di un redivivo Pifferaio di Hamelin. Anche in questo caso risolve il plot un deus ex machina: una colomba guiderà i bibbienesi alla grotta-prigione e una stella illuminerà il tragitto nelle viscere della terra. Simboleggiano la Vergine, àncora di salvezza. Tanto è vero che è intitolata a Santa Maria del Sasso la chiesa che ingloba il leggendario masso sul quale si posarono la colomba e l’astro.

Ma al di là dell’aspetto pedagogico e morale, colpisce l’icasticità della scrittura. Un esempio da “La stanza rossa”, che è quella di un albergo nella quale alloggia un viandante senza curarsi della leggenda che la vuole posseduta dal fantasma di un morto ammazzato: «…Alzò la fiamma della candela per illuminare meglio il luogo in cui si trovava e vide in fondo un grande letto con sopra il baldacchino anch’esso con la tappezzeria tutta rossa e dello stesso colore c’erano da una parte un tavolino e una sedia. Il rosso e il nero, le ombre di quella strana camera che sparivano e ritornavano con il bagliore del fuoco che scoppiettava nel vecchio camino…». Hitchcock ne avrebbe tratto una delle sue inquadrature.

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