Domenico Calcaterra
A proposito dei "Sepolcri"

L’Ottocento è tutto

Una nuova edizione del capolavoro di Ugo Foscolo, arricchita dalle illustrazioni di Marco Cazzato), fa scaturire una serie di riflessioni sull'abbandono in cui giace - nella nostra cultura evanescente - l'Ottocento italiano. Perché la sua etica, il suo rigore e la sua lingua non vanno di moda?

Un giovane critico romano, qualche anno fa, a commento di alcune dichiarazioni di sedicenti talentuosi scrittori suoi coetanei sul vanto della loro scarsa o pressoché nulla frequentazione dei classici, dalle colonne di un giornale così sentenziava: «La mia generazione non esiste». Ecco: senza voler raggiungere analoghe vette di pessimismo, sono sempre più dell’avviso che la mia generazione, improvvidamente, perseveri nel non darsi un preciso e condiviso «progetto culturale» che principi dal necessario volgersi indietro, discendendo a quelle radici (culturali e letterarie) a torto rimosse. No, nel dire questo non penso affatto a Tolstoj o Dostoevskij, a Kafka o Proust, a Joyce o Musil, o qualsiasi altro astro maggiore del firmamento otto-novecentesco che fa capolino sovente nei post dotti dell’utente medio-istruito di Facebook o dello scrittore-grancassa che usa i social come azzerante megafono di vacua e ostentata celebrazione d’un indistinto mare di memorabili relitti. Assai più modestamente penso al nostrano Ottocento, che in noi talvolta sembra abbia prodotto come più eclatante risultato nulla più che un inossidabile complesso d’inferiorità, soprattutto se comparato con gli esiti coevi delle altre grandi letterature occidentali. Ché dal conclamato stato di minorità al dimenticatoio, si sa, il passo è breve.

A parte il sempreverde Leopardi (peraltro ridotto a figurina neopop dal Giovane favoloso di Martone), a cui è toccata medesima sorte di estenuante volgarizzazione che adesso sta investendo il padre Dante, in occasione delle euforiche celebrazioni per i settecento anni dalla morte, o la omeopatica somministrazione nelle aule di scuola delle pagine di un Manzoni ingiustamente spacciato per romanziere al cloroformio, non mi pare si guardi granché all’Ottocento italiano. Chi, per dirne una, indugia più sulle pagine di un libro di straordinario candore come Le mie prigioni (1832) di Silvio Pellico? O chi legge più romanzi come Giacinta (1879) di Capuana o Fosca (1869) di Tarchetti? Certo non mancano eccezioni, come i recentissimi testi di Agamben e Fois dimostrano, entrambi pronti a mettere in avviso i lettori circa la fuorviante antinomia di due classici imprescindibili dell’Ottocento come il Pinocchio (1881-83) di Collodi e Cuore (1886) di De Amicis; il primo, offrendo un commento che vede nel personaggio collodiano l’ibrida ipostasi dello stare in mezzo nella vita, del navigare a vista, a spanne e «a occhiate», nel mare magno del disvelarsi della verità; il secondo, invece, tornando sulle pagine di Cuore, quintessenza dell’italianità, mettendo a fuoco il giganteggiare, da quel momento in poi, del mito bacato e autoassolutorio degli italiani brava gente.

Eppure, basta dare un’occhiata al dato anagrafico degli autori in questione per comprendere che ciò invero rafforza la preoccupazione generazionale da cui ha preso avvio il mio discorso. Come se il problema dell’identità culturale d’un tratto abbia smesso di riguardare proprio i nati negli anni Settanta, epperò gli stessi, nel frattempo, diventati rampante classe dirigente culturale e politica del nostro bel Paese.

Queste ed altre elucubrazioni – che per il benpensante progressista di turno potrebbero suonare come sonore bestemmie, ombelicale retrocessione a lamento passatista di un critico di provincia –, mi sono state suggerite dalla recentissima speciale riproposizione (con tanto di illustrazioni a corredo realizzate da Marco Cazzato) del carme dei Sepolcri (1807) di Ugo Foscolo. Il lontanissimo, il maltrattato, l’inattuale Foscolo, che ha sofferto e soffre tutt’ora di un’ingiustificata tepidezza verso la sua lezione da parte di molti; per non dire poi delle livorose banalizzazioni, da Tommaseo a Gadda. Sorte che non gli viene risparmiata nemmeno oggi, se solo qualche anno fa è apparso Forsennatamente Mr. Foscolo (2018) di Luigi Guarnieri, un romanzo biografico dedicato agli ultimi anni di vita del poeta di Zacinto a Londra, in cui viene descritto al pari d’uno «squilibrato», ostaggio delle proprie nevrosi. Sul ritratto del Guarnieri sembra pesare, insomma, la stessa condanna del Pecchio, suo primo biografo, che vide addirittura negli scrittori come l’autore dell’Ortis degli «avvelenatori della vita».

Foscolo, al contrario, a cavallo tra il secolo dei Lumi e i munifici semi di un precorso Romanticismo, pone al centro il dato autobiografico come unico plausibile ponte tra vita e scrittura; affida alla responsabilità di dire io, con funambolico passo, l’equilibrismo di far vibrare assieme (entro un medesimo comune orizzonte) la corda privata e quella civile (alfiere dell’io, al pari d’uno Chateaubriand o di Stendhal); consegna a chi verrà dopo di lui un sillabario valoriale, per quanto si vuole impostato, ma il cui trait d’union risiede nella virtù prima della compassione. E non a caso, in quel non-romanzo referto d’una disfatta generazionale, che tuttavia può benissimo essere letto come storia tragica del travaglio d’una mente, che è Le ultime lettere di Jacopo Ortis (1802), sarà questa l’alta e inequivocabile sentenza messa in bocca all’alter-ego della sua giovinezza infranta: «Tu compassione, sei la sola virtù! Tutte le altre sono virtù usuraje». Una volta riconosciuto il primato d’essa, in quanto segno più elevato di una civiltà, a Foscolo non rimaneva che condurre innanzi la sua riflessione per rintracciare nel miraggio della tomba il segno perfetto del concretarsi del più sublime dei sentimenti.

Illustrazione di Marco Cazzato

La tomba che diviene perciò la soglia di corrispondenze («celeste dote»), oltre la quale s’innesca un ventaglio di possibili sopravvivenze che possono e devono essere per primo celebrate dal poeta. Dal limite inoppugnabile della presa di coscienza della finitudine della materia e della morte come nulla, sottoforma di epistola poetica inviata all’amico Ippolito Pindemonte, sgorga la quintessenziale poesia filosofica e civile del carme dei Sepolcri. Il folle prevalere degli ardori umani e delle illusioni, là più e ancora dianzi alla certezza che il tempo ogni cosa «involve». L’erompere del tumulto avversativo che sale in risposta alle pure (per il nostro) ineludibili domande che danno avvio al carme e alla meditazione del poeta sulle sepolture. È il radioso e folle accettare quel colloquio con i morti che perdura e consola i vivi. Non c’è per Foscolo scandalo più grande del giacere per l’estinto senza tomba, privarlo – come accadde allo sventurato Parini – del doveroso tributo «d’umane lodi» e «d’amoroso pianto». Le tombe, lo spazio delle sepolture, come i cimiteri inglesi, diventano un segno, il luogo da cui si diparte la memoria, origina – come fresca sorgente – il lenitivo nutrimento del racconto: «e chi sedea a libar latte o a raccontar sue pene/ai cari estinti» (vv. 126-128). La parola sorgiva del poeta («l’armonia/vince di mille secoli il silenzio», vv. 233-234), ciò vuol dirci Foscolo, è parola di miracolosa persistenza: il diniego più concreto che l’uomo possa realizzare davanti allo scacco della morte; lo strumento più grande per promuovere il faticoso perpetuarsi d’una civiltà e dei suoi valori (si rammentino le incompiute Grazie). Ché fuori da questa luce non si comprenderebbe affatto il naturale accenno all’esemplarità delle «urne dei forti» in Santa Croce a Firenze o il reiterare (novello Omero) il mito dei vinti del bellum troiano che culmina nella figura del soccombente eroe mortale per antonomasia, Ettore, il cui astro brilla ancor più nella sconfitta, nel transito dall’angosciosa paura alla virile accettazione della pugna e del destino di morte. Ed è appunto ciò a giustificare lo stratificato tessuto di rimandi che sottende all’ordito di tutto il componimento.

Questa universale storia che attiene tanto all’individuo quanto ai popoli, raccontata con solenne e appassionata intonazione dal Foscolo nel carme più celebre della letteratura italiana possiede l’icastica plasticità di un cesellato bassorilievo: parole, quelle del carme foscoliano, che sembrano cavate dalla pietra; per cui riesce difficile pensarlo scritto altrimenti da come venne concepito dal poeta. Sembra quasi che l’invito a ritornare, come spesso fece l’Alfieri («E a questi marmi/venne spesso Vittorio»), a ispirarsi ai marmi dei grandi della patria vada di pari passo con l’opzione di una lingua “scultorea” e di una maniera di poetare che in qualche modo la emuli, nello scatto avanti della parola. In tal senso la scelta, in questa più recente edizione, di offrire il testo senza commento o apparato alcuno, se non quello delle illustrazioni dalla tetra mediterraneità di Cazzato, a rievocare i rituali meridiani connessi alla morte (e che richiama certi reportage di Scianna sulla Sicilia degli anni Sessanta), ce lo restituisce nella sua nudità, come voce che salga da un lontanissimo passato, a principiare da un dettato poetico tanto alto quanto di non agevole decifrazione, specie per l’incalcolabile deficit accumulato dagli italiani d’oggi rispetto al patrimonio della nostra lingua. A cosa potrebbe giovare, dunque, indugiare ancora sui versi del meravigliosamente anacronistico capolavoro di Ugo Foscolo? Forse a riscoprire intatte certe idealità (di contro ai ridicoli carcami delle mode odierne), quasi nell’epoca del “troppo tardi”. Corrispondere a un disperato bisogno, se non proprio di illusioni, di spiragli: a immaginare un nuovo corso per i nostri tempi; a pensare una nuova giovinezza e provarsi a svicolare dalle maglie scorsoie di una realtà fattasi oltremodo greve. Dunque, l’auspicio d’esordio di volgere la testa verso il nostro Ottocento, più che puerile invito a trovare consolante rifugio in una qualche forma di dorato esilio, risponde al bisogno d’incontrare l’inattuale perché ci rimetta in sintonia con una certa nitidezza di senso e ci riaffidi all’impressione, come scriveva il mai troppo rimpianto Luigi Baldacci nel suo libro di congedo, Ottocento come noi (2003), «di aver captato la vita». Giacché, anche per noi – nel bene e nel male, nel vecchio e nel nuovo –, «l’Ottocento è tutto».

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