Alessandro Boschi
A proposito del "Museo dell'inferno"

L’inferno di Raymond

I romanzi di Derek Raymond sono sempre come un pugno nello stomaco: non solo ci mettono in relazione con il dolore (quello dei personaggi diventa il nostro), ma ci fa ammettere che non c'è soluzione. L'unica possibilità è vivere

Credo che le riflessioni più vere e più profonde scaturiscano sempre per caso e non in virtù di un percorso esistenziale, di una sofferenza, di un accadimento. A me è successo terminando di leggere un romanzo di Derek Raymond (1931-1994), Il museo dell’inferno (Dead Man Upright), il quinto e ultimo della serie della Factory, ovvero di quei racconti dedicati ad una particolare sezione della polizia londinese che si occupa di delitti irrisolti e che nessuno ha voglia di risolvere trattandosi sempre di poveracci senza nessuna rilevanza sociale.

Derek Raymond è considerato il padre del noir anglosassone contemporaneo e questi cinque romanzi lo confermano inequivocabilmente. Il protagonista è un sergente che rifiuta le promozioni, che rifiuta le gerarchie e se ne infischia dei superiori, in particolare del suo diretto superiore, un giovane rampante attento solo a scegliere casi che gli portino celebrità sulle pagine dei giornali. Il sergente, al contrario, ha rispetto solo per i suoi princìpi, ed è un instancabile e astuto segugio al quale la polizia, nonostante le frequenti insubordinazioni, non sa rinunciare perché è l’unico in grado di risolvere certi casi spinosi e terribilmente cruenti. Senza quasi mai servirsi di armi. Non si sa quale sia il suo nome, perché l’autore non lo dice mai. Ha pochi amici, tutti borderline come lui. Ha un unico riferimento di cui accetta l’autorità, “la voce”, come lui la chiama. Una voce che comunica con lui solo per telefono, e della quale non si conosce né nome né grado.

Queste le ultime parole del capitolo finale della Factory: il sergente sta sognando,«All’improvviso sto correndo verso Dalia, che sta pedalando sul vialetto di casa sulla sua bici. La settimana prossima compirà nove anni, mi sto precipitando verso di lei a braccia aperte gridando: Ti voglio bene! Ti voglio bene! Ma non riesco mai a raggiungerla».Dalia è la figlia del sergente, morta a poco più di otto anni, gettata dalla madre sotto le ruote di un autobus. Una tragedia enorme, devastante, irricevibile, che spiega l’atteggiamento del protagonista verso la vita e verso la morte. Che, entrambe, né cerca né teme. Leggendo i romanzi ci si affeziona ai personaggi, specialmente a quelli disperati, e questo non c’è dubbio che della disperazione abbia tutti i crismi. Ma il dolore più grande causato da quel finale è qualcosa che va oltre. È un dolore irrisolvibile. L’empatia creata da qual personaggio ci proietta in un mondo che diventa nostro e dal quale non vorremmo staccarci, e soprattutto non vorremmo che quel dolore rimanesse sospeso come invece avviene.

Accade anche nelle serie televisive, è vero. Ma la tv è replicabile perché colonizza la nostra immaginazione e alla fine la edulcora, la disinnesca. Qui è diverso. Derek Raymond ha creato una profonda ferita empatica: noi sentiamo il dolore terribile di quel padre, e vorremmo che succedesse ancora qualcosa, qualsiasi cosa, ma non quella sospensione che afferra lo stomaco. Perché non ci sarà mai nessun altro modo per raccontare le vicende di quel personaggio, perché nessuno lo può aiutare, nemmeno la morte, il suo dolore è definitivo. Così come la nostra amarezza e, sì, anche il nostro dolore inventato. L’autore non c’è più, non esiste soluzione, non può aiutarci, e noi siamo destinati a vagare in un mare fittizio ma doloroso di malinconia.

La sofferenza del padre per quella bambina uccisa da una madre folle ci strazia perché non ha fine, non ha soluzione. Leggendo gli altri romanzi, passo dopo passo, ci si domanda quale potrebbe essere la soluzione, di che tipo, per un dolore così grande. E alla fine scopriamo esattamente quello che avevamo previsto: la soluzione non esiste. Alla fine purtroppo lo tocchiamo con mano. Come dicevano i Pooh, «stare insieme è finito, abbiamo capito ma a dirselo è dura». La letteratura, quella vera, ci riporta dove siamo partiti, anche se non ce lo ricordiamo.

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