Roberto Cavallini
Al Parco della Musica di Roma

Le donne del Panjshir

Laura Salvinelli espone le sue fotografie realizzate nel Centro di Maternità di Emergency nel Panjshir, in Afghanistan. Sono immagini in cui, senza altro “filtro” che non sia l'occhio dell'artista, la gioia delle vita si mescola al dolore della nascita

La fotografia racconta sia ciò che è davanti agli occhi sia ciò che è nell’animo del fotografo. La fotografia è grande fotografia quando quello che racconta ha un valore universale, ma soprattutto quando l’animo dell’autore è mosso dalla volontà di capire. Fotografia è un termine tanto onnicomprensivo, quanto generico. C’è sempre una ambiguità nell’usare questo termine al singolare, perché si è portati a pensare alla bella fotografia, al congelamento dell’attimo fuggente, occorre quindi specificare di che cosa si sta parlando. In questo caso, si parla di racconto fotografico, di partecipazione emotiva e visiva della fotografa Laura Salvinelli, nei confronti di altre donne nel momento unico e peculiare della loro esistenza, quello del parto.

Afghana è la mostra fotografica, esposta all’Auditorium Parco della Musica fino al 24 ottobre (ma prossime date e luoghi sono in programma), realizzata nel Centro di Maternità di Emergency in Panjshir.

Nel 2003, accanto al Centro chirurgico del Panjshir, Emergency ha aperto le porte del Centro di maternità, ancora oggi l’unica struttura specializzata e gratuita della zona che permette alle donne la formazione necessaria per diventare infermiere, ginecologhe, ostetriche e garantisce alla popolazione femminile di partorire in un ospedale sicuro, in un’oasi protetta in cui gli uomini non hanno accesso, e che diventa sia per le pazienti, che per lo staff un luogo dove prendersi cura di loro stesse. Qui sono effettuati oltre settemila i parti ogni anno: da quando è entrato in funzione, nel giugno 2003, al dicembre del 2020, nel Centro sono state ricoverate più di ottantaseimila donne e sono stati fatti nascere più di sessantacinquemila bambini.

Laura Salvinelli è una fotografa dal ricco curriculum. A seguito di una carriera ventennale come ritrattista, di attori e di musicisti, iniziata ai tempi dell’università, dopo l’11 settembre 2001 decide di dirottare le sue capacità espressive al servizio di cause sociali. Da quel momento si susseguiranno numerosi reportage, dall’Asia e dall’Africa, spesso collaborando a stretto contatto con le organizzazioni umanitarie.

Pubblica su giornali e riviste come Alias-il manifesto, Internazionale ed Elle. E quei reportage daranno vita a numerose mostre: La Cura (2004) sull’Afghanistan; Sulla Prima Nobile Verità. Ritratti di guerra, esilio e rinuncia (2005), sul continente asiatico; Congo Reportraits (2007), sulla Repubblica Democratica del Congo; Indiana. Reportage dal più grande sindacato di lavoratrici autonome indiane (2008), con i testi di Mariella Gramaglia; In the Eye of a Woman per la World Bank, Washington D.C. (2007); Stop TB! per la World Health Organization, Hannover (2013); la collettiva Female Genital Mutilation 68 MILLION GIRLS AT RISK per Dysturb e United Nations Population Fund, New York City (2019).

Come buona parte dei grandi fotografi, in particolare italiani, Laura Salvinelli non ha frequentato scuole di fotografia, si è formata sul campo, prima come modella poi passando dall’altra parte dell’obiettivo, ma un momento fondamentale per la sua formazione è stato l’incontro con Alessandro Portelli che la spinse alla compilazione della tesi di laurea su Let Us Now Praise Famous Men, un libro con il testo dello scrittore americano James Agee e le fotografie di Walker Evans , pubblicato per la prima volta nel 1941 negli Stati Uniti. L’opera documenta la vita dei fittavoli impoveriti durante la Grande Depressione. Esiste un rapporto inscindibile tra testo ed immagine, per quanto riguarda la fotografia sociale, «la cui complementarietà ti avvicina alla verità» dice Salvinelli, che è anche autrice dei testi dei suoi reportage.

Gli altri grandi autori di riferimento, per ammissione della stessa, sono stati Lewis Hine e Eugene Smith, la cui frase: «Ho capito che per essere un buon giornalista dovevo essere il miglior artista possibile», è una affermazione importante e difficile da realizzare, perché spesso per motivi di mercato o per egocentrismo molti fotografi sono spinti ad enfatizzare i contrasti o i cromatismi delle loro foto ed esibire il loro virtuosismo nella sollecitazione retinica. L’affermazione che chiarisce perfettamente l’impostazione del lavoro di Salvinelli e che lei stessa ci tiene a sottolineare è: «Il desiderio e l’intenzione di porre l’estetica al servizio dell’etica».

Le 25 gigantografie esposte nel foyer dell’Auditorium, accompagnate da ricche didascalie e da citazioni del mistico Jalal ad-Dini Rumi, raccontano una storia, per la cui più profonda comprensione è bene affidarsi alle parole dell’autrice stessa: «Il reportage sul Centro di maternità ad Anabah nella Valle del Panjshir è stato per me come un ritorno a “casa”. Casa è per me l’Afghanistan, luogo della mia anima e casa è l’impegno di Emergency contro la guerra e in difesa dei diritti umani. Ho lavorato in un mondo in cui fotografare le donne è un tabù e mi sono caricata del ruolo dell’elefante in un negozio di cristalli. Ho combattuto per mostrare nel nostro mondo le foto del parto, che violano un altro tabù, quello del sangue della vita e del corpo reale delle donne. Mi sono posta in continuazione la domanda di tutti i fotografi: se sia giusto entrare nell’intimità degli altri. Credo che la risposta, sempre diversa, dipenda da perché e da come si fa – l’importante è che quella domanda lavori sempre dentro di noi».

Le luci in sala parto, paradossalmente caravaggesche illuminano i corpi dei neonati e i camici verdi del personale medico: disegnano straordinari drappeggi che accompagnano l’occhio, proprio verso quei corpicini ancora legati alla mamma dal cordone ombelicale. Si alternano a queste foto, nella sequenza, le altre, quelle della medical coordinator e della ginecologa a fine turno che si abbracciano o quelle relative alle visite dei parenti, dove gli uomini (in permesso speciale temporaneo) appaiono sorridenti e partecipi delle sorti delle loro mogli, negando con quella immagine l’altra stereotipata dell’afghano identificato sempre e comunque con l’essere talebano. In altre foto ancora, alcune donne mostrano il loro viso con espressioni di dolore, di preoccupazione e di felicità, come quella della giovane madre che è diventata il manifesto della mostra stessa. A noi occidentali, quella foto ci appare consolante e bella: una giovane madre che tiene in braccio la propria figlia e mostra il volto sorridente; ma è all’interno della sequenza che questa immagine assume ancor più valore perché scattata all’interno del Centro di Maternità di Emergency, un luogo protetto dove le donne hanno la possibilità di soddisfare anche il desiderio di mostrare il proprio viso.

La storia è fatta di dettagli ripete la Salvinelli, citando Anna Politkocskaja e tutti questi dettagli messi in fila, tutti questi Reportrait, dove si «fonde l’empatia senza tempo del ritratto all’urgenza del reportage umanitario», raccontano una grande storia.

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