Francesca Sensini
Addio Alitalia/4

La luna da vicino

«Non ho mai più guardato così a lungo la luna come su quel volo. Il suo sbadiglio è rimasto per sempre la mia amica piena di sonno, che si sarebbe svegliata per un bagno notturno nella caletta di fronte al nostro bungalow, mentre mia madre crollava esausta nel bungalow poco più in là»

Allacciate le cinture e tenetele allacciate. Il click del fibbione metallico fa scattare subito la mia immobilità. Non mi tolgo neppure la giacca, è troppo tardi. Ci resto dentro: un bozzolo caldo sospeso dentro un aereo Alitalia Parigi-Milano. Una voce femminile comincia a enumerare amabilmente turbolenze e vuoti, ammaraggi e scivoli, maschere e cali d’ossigeno. Penso che, in fin dei conti, sono cose che mi capitano ogni giorno anche fuori dallo spazio pressurizzato dell’aereo. Non proprio le stesse, certo, ma l’effetto è quello, la sensazione uguale. E sono cose che mi capiteranno ancora, non appena atterrata.

L’idea dell’atterraggio mi rassicura, spingendo la voce amabile che recita il suo catastrofico copione di routine sul fondo della mia testa. Eppure prima non ero così, non avevo paura di volare. Com’è cominciato, quando è che ho perso le ali che scompaginavano il bozzolo e mi tenevano sospesa, in volo, senza la zavorra della paura? Chi si ricorda! Allora mi metto ad anticipare mentalmente quello che mi aspetta non appena sarò atterrata. Cerco insomma di scambiare ansia celeste con ansia terrestre. Prima cosa: la valigia da recuperare, sperando non sia persa, e poi la corsa in Stazione centrale, dove mi aspetta il treno per Genova. A che ora è di preciso? Frugo nella borsa ai miei piedi e cerco il foglietto con l’orario, muovendomi il minimo indispensabile. Ho questa convinzione imbarazzante che, se mi muovo poco, se resto immobile, l’aereo farà lo stesso: io non gli faccio pesare che ci sono sopra, lui non mi butta in un vuoto d’aria. Non funziona sempre. Comunque sia, trovato e memorizzato l’orario del treno, mi riassesto stringendomi un po’ di più intorno al punto fermo del mio corpo: stiamo prendendo lo slancio per decollare.  

Mentre l’aereo si stacca dalla pista, mi stacco anche io, come posso, ma dal presente. A breve ci avrebbero servito uno snack dolce o salato e un bicchiere di qualcosa – succo d’arancia per me, grazie – che so già che avrei bevuto senza sete, giusto per darmi un segno che andava tutto bene, che per tutti era tutto normale: si mangia, si beve, si aspetta di scendere dall’aereo. Pensare che da ragazzina non solo adoravo volare ma mi piacevano persino i pasti serviti sugli aerei Alitalia. Mi divertivano i compartimenti con le mini lasagne fumanti, lo stufatino con le patate, tutto curato, preciso, dal primo al formaggio al dessert, micro panino, burro e crackers compresi. Mi sembrava un pasto da bambole e facevo onore alla sua eccezionalità, finendo tutto, con metodo.

Avevo una netta preferenza per la cena, perché i voli notturni erano meglio. Erano sempre quelli per le vacanze. Come il primo volo Alitalia Milano-Atene. Ecco, mi stacco e salgo su quello, prendo una coincidenza con il pensiero. È un volo che mi piace di più, dove soprattutto io mi piaccio molto di più, dove si servivano ancora le cenette delle bambole e accanto a me c’era la mia migliore amica del liceo e mia madre. Mia madre già allora diceva immancabilmente: beh, dai, tesoro, se moriamo, moriamo insieme. Potrebbe essere cominciata così la formazione di qualche crepa nelle mie leggerissime ali ma allora non ci badavo. Morire, suvvia! Volare semmai. E intanto deridevamo, io e la mia amica, l’inclinazione tragica dell’adulta al nostro fianco, mentre l’ansia da aereo – ne sono quasi certa – finiva piano piano sul fondo della sua testa, sfinita da un anno di lavoro con sveglia alle 6. Mia madre si arrendeva così, senza accorgersi, agli svolazzamenti chiassosi delle due adolescenti che portava in vacanza.

Mi ricordo che ero seduta al finestrino. Nessuna delle mie due compagne aveva protestato: mia madre per paura di constatare che eravamo ad alta quota e quindi potenzialmente spacciate; la mia amica perché non aveva nessuna attitudine alla contemplazione e voleva dormire. Io no. Nessun dorma: per l’occasione mi ero portata un quadernetto speciale con le pagine nere. Ci potevo scrivere solo con dei pennarelli appositi, gialli fluo, dorati, bianchi. Lo volevo inaugurare per la Grecia, che fino a quel momento per me era solo materia di studio e scoperta del ginnasio, mito, idea, incontestabile meraviglia. Lo tenevo aperto sul fibbione della cintura allacciata e guardavo fuori in cerca di ispirazione. Non sapevo cosa scrivere. Fuori la luna si stava definendo sempre meglio, piena e gigante: stava a due battiti di ali da me e io non stavo ferma dalla gioia, dando parecchia noia alla mia amica, che mi voleva usare come appoggio per la testa. Ho capito che non dovevo scrivere niente, in realtà; solo provare a disegnare la luna. Il foglio nero era già la notte, bastava lavorare sui crateri degli occhi, della bocca, sulle cicatrici della signora con il faccione un po’ di sbieco, indecisa tra stanchezza e fantasticheria.

Non ho mai più guardato così a lungo la luna come su quel volo. Il suo sbadiglio è rimasto per sempre la mia amica piena di sonno, che si sarebbe svegliata per un bagno notturno nella caletta di fronte al nostro bungalow, mentre mia madre crollava esausta nel bungalow poco più in là. Gli occhi spalancati della luna, invece, rappresentano sempre me, che non avrei dormito un minuto quella notte e che, di natura, non mi so riposare. Passando per offrirci discretamente qualcos’altro da bere, nel buio del corridoio rischiarato solo dalle guide luminose a terra, un’hostess e uno steward si sono incrociati fermandosi qualche momento, approfittando della quiete generale. Guardavano dove guardavo io, fuori dal mio finestrino, la luna. E si sono detti qualcosa che non ho sentito ma che di sicuro aveva a che fare con quel plenilunio unico, come unico era il volo Alitalia che me l’aveva messo davanti agli occhi, incorniciato alla mia finestra, e che mi sembrava essere durato una notte intera. Ma no, erano due ore di tratta, con l’aggiunta di una terza ora virtuale, dovuta al fuso orario della Grecia rispetto all’Italia. Un grappolo metallico di click mi fa scendere dalla coincidenza. Annuncia che anche questa volta sono sopravvissuta, che mi posso muovere di nuovo, a Milano, nel pieno di un giorno lattiginoso di metà ottobre, mentre io volevo atterrare ad Atene, in una notte di luna piena, a inizio luglio. Torna a farsi sentire anche la voce amabile: non dimenticate i vostri effetti personali, attenzione alle cadute. E gli affetti allora? Il mio primo volo in Grecia, Alitalia, Milano Malpensa-Atene Elefthérios Venizélos, io e la luna piena più grande che si sia mai vista, catturata nel quaderno speciale con le pagine nere, in un tempo in cui era così facile scompaginare il bozzolo, rotolare fuori, ridere, in volo, anche della fine.


Le fotografie sono di Roberto Cavallini

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