Danilo Maestosi
Alle Scuderie del Quirinale di Roma

Immaginario infernale

Non è banale né scolastica la grande mostra d'ispirazione dantesca allestita da Jean Clair. Dalle "prigioni" morali cinquecentesche alle banalizzazioni romantiche, dalle invenzioni surrealiste alle derive pop, l'Inferno si dimostra una questione molto più complessa dell'universo religioso nel quale spesso è stato relegato

Inferno. Il timore, varcando la soglia delle Scuderie del Quirinale dove la mostra battezzata da questo titolo resterà in scena fino a gennaio, è di dover assistere ad un rito scontato. Uno dei tanti omaggi a Dante per addetti ai lavori che riempiono il calendario di celebrazioni per il settecentenario della sua morte. E riportano subito in mente la tortura che ci infliggevano al liceo con quelle lezioni paludate e saccenti sulla Divina Commedia, diluite negli ultimi tre anni di corso e più attente alle spiegazioni in nota che al testo, che storpiavano il fascino della sua sfida poetica. Allontanavano in un passato remoto di obblighi senza immediata ricompensa persino la presa dei brani di quella prima Cantica che eravamo costretti a ripetere da pappagalli, unica eredità di quell’ottuso metodo di insegnare che oggi, dopo aver riscoperto Dante a trent’anni, in piena libertà da lettore, non rimpiango.

Il timore è subito spazzato via dal video sullo schermo che ti accoglie all’ingresso. Spezzoni di un film muto italiano del 1901: un Caronte lardelloso che gesticola, dannati che recitano come Francesca Bertini. Un tuffo nella cultura popolare che ti avvince con il sorriso e ti toglie ogni inibizione. Lungo il percorso della mostra, nella sale del primo piano, mi accorgo anche che quegli spaventapasseri didattici della mia adolescenza trovano qui una giustificazione parziale. Che quella rigidità, che avvertivo sui banchi di scuola, si specchia nel campionario di forme ingessate con cui la pittura alle soglie della modernità scolpisce nei quadri di molti artisti minori, e cerca di riconsegnare al loro tempo, i due protagonisti del viaggio all’Inferno. Impalati, improbabili e posticci come marionette malmanovrarate, quel Virgilio in tunica da patrizio romano e corona di alloro sul capo e quel Dante dal volto sempre attonito e dal naso ricurvo nascosti sotto un cappuccio rosso che ci sfilano davanti e poi si dispongono al lato per non intralciare l’inquadratura, nelle tele di Paolo Vetri (1874) e Gustave Courtois (1880) e altri maestri del secolo selezionati per l’occasione.

Bottega di Hyeronimus Bosch, “La visione di Tundalo”, 1500 circa

Già, l’Ottocento. È l’epoca in cui la statura poetica di Dante e la fucina di umanità tormentata del suo Inferno tornano con prepotenza ad infiammare la fantasia di una generazione di intellettuali e creatori convertiti dal romanticismo al fascino della trasgressione e ai sussulti dell’inconscio, in cerca di verità e ispirazione lungo gli incerti confini tra bene e male profetizzati da Baudelaire e dalle nuove esplorazioni della scienza psichiatrica.

Un siparietto di incontenibile sensualità ci racconta seguendo questo sguardo complice e malizioso la passione che travolge Paolo e Francesca, la sofferenza, la fame, la voglia di vendetta che traducano la furia antropofaga del conte Ugolino. Marcando lo scarto che si è consumato tra la visione e le finalità del poeta e l’interpretazione con cui mezzo secolo dopo i suoi personaggi vengono riportati sulla ribalta a rivivere le loro cadute.

Storie che ripercorrono altre storie, ne capovolgono il senso, lo riformulano nel presente. È il filo della narrazione che l’ideatore di questa rivisitazione, Jean Clair, storico onnivoro, saggista accademico di Francia, critico spietato delle derive, dei vicoli ciechi, delle scorciatoie dell’arte contemporanea, ci sgrana davanti. Liberandoci dal timore paralizzante rispetto all’alone mitico del poema che tanta cattiva scuola ci ha trasmesso, per l’incapacità di misurarsi con gli slittamenti della morale, con l’imbarazzante presenza del peccato e della trasgressione. Di annodare l’intera maglia di andirivieni che sorregge come un tragitto obbligato e fecondo del destino umano, la storia della letteratura e quella della visione. Senza, per questo intaccare, la grandezza di Dante e annacquare la sua straordinaria capacità di farci viaggiare in un luogo di sogni e metafore. L’Inferno che condensa in se le fughe d’immaginario che l’hanno preceduto e gli hanno dato forma e la possibilità di continuare generare altre geografie fantastiche.

Come ci dimostra l’opera che figura tra le attrazioni più reclamizzate di questa mostra. La copia in gesso della Porta dell’Inferno di Auguste Rodin prestata dal museo parigino a lui intitolato, dove è conservata anche la fusione finale in bronzo di questo tormentato capolavoro: trent’anni di gestazione di cui lo scultore non riuscì neppure a vedere la fine. Un po’ per le incertezze sulla sua collocazione e il suo finanziamento. Ma soprattutto per il carico di ambizioni che l’autore ci aveva riversato, continuando a trasformare con aggiunte e ripensamenti il progetto: farne un compendio del suo tragitto creativo e un lascito testamentario destinato ad orientare, come poi in gran parte, è successo, tutte le successive evoluzioni dell’arte plastica.

L’intera gamma delle emozioni e delle esperienze umane, dalla paura al dolore, dallo smarrimento all’angoscia, riassunte nella torsione e nella stasi più estreme dei corpi. Dalla solidità dell’amore per la vita alla morte e alla dissoluzione del nostro involucro di creature senzienti.

Sandro Botticelli, “La voragine infernale”, 1481-1488

L’Inferno – ci spiega Jean Clair – nasce in Occidente: da lì, dalla necessità di separare questi due regni. Queste due modalità dei corpi. Molto prima che il Cristianesimo ne distillasse la versione che poi Dante ha ripreso. È l’Ade del mondo grecoromano, un luogo di tenebra e di malinconia nascosto alla vista dei viventi, nel quale solo pochi eletti, come Orfeo o Ulisse, saranno ammessi ad entrare e darne testimonianza. È la Geenna della religione ebraica, una stazione di sosta che anticipa le sofferenze e il distacco perenne cui i corpi dei trapassati saranno sottoposti.

Pochi nel vecchio e nuovo testamento i riferimenti a questo abisso sprofondato. Ma quanto basta per alimentare un processo di elaborazione che porta alla definizione dell’Inferno come prigione di destinazione dei peccatori incalliti, al Giudizio Universale come momento di separazione tra beati e dannati. Una terra inabissata consegnata ad un re del Male, il diavolo, e allo stuolo del suo esercito di angeli caduti trasformati in aguzzini armati che consente a questa Nazione di mantenersi e funzionare come una spietata macchina di punizione. Monumento tangibile di un infinito catalogo di torture, umiliazioni, angherie, soprusi studiati come contrappasso alle gravi devianze che segnano la vita dei mortali che si allontanano dalla retta via della fede. È l’orizzonte cupo di mostri e mostruosità in cui si muove la Chiesa del medioevo. E il serbatoio di immagini, profezie e visioni con cui lo rappresenta e lo tramanda fino a Dante, costruendo una mappa dell’orrore definita in ogni dettaglio. Che i capitoli di questa mostra ci consentono di ripercorrere.

Ecco la sua porta raffigurata in una serie di codici miniati dalla bocca di un demone che azzanna e inghiotte chi la varca. Ecco la pianta architettonica che lo modella: un prezioso disegno di Botticelli che lo raffigura come una sorta di imbuto scalettato che precipita nel magma vulcanico sotto la crosta del pianeta per riaffiorare dall’altra parte. Come una torre di Babele capovolta. Come il cono di un vulcano. Come il groviglio di un intestino che sfiata verso l’ano. Un vortice buio di utopie ribaltate, di bagliori incandescenti e di escrezioni di merda.

Tre ingredienti che tornano nelle illustrazioni della discesa nelle bolge di Dante e Virgilio, che di secolo in secolo perpetuano il successo e il fascino della Commedia e di questa sua prima Cantica: il distacco dei tratti a sanguigna con cui a fine Cinquecento Federico Zuccari ammorbidisce lo spettacolo delle pene, la precisione dei segni con cui nella stessa epoca Giovanni Stradano descrive come in un trattato di anatomia l’alternarsi dei corpi nei vari gironi, e poi, in pieno Ottocento il chiaroscuro da fumetto ammaliante con cui Gustavo Dorè si addentra nelle tenebre che avvolgono peccati e peccatori. Fino all’ultimo suggestivo siparietto riservato ad un maestro contemporaneo, il surrealista Miquel Barcelò.

Pieter Huys, “Inferno”, 1570

Con la Controriforma la Chiesa cattolica rinuncia al monopolio della gestione visiva dell’Inferno, concentrando la sua attenzione sul tema della Redenzione. E l’incubo si trasferisce altrove, nell’Europa del Nord, flagellata da guerra interminabili, minacciata dal turbine di rivolte sociali innescate dalla protesta luterana. Una fioritura di rappresentazioni su cui questa rassegna si sofferma con un’ampia campionatura di capolavori sfornati dalle botteghe di Bosch, Brueghel e altri maestri fiamminghi. L’altrove del peccato come una regione di perenne battaglia. I fuochi che all’orizzonte illuminano le manovre belliche delle truppe diaboliche, danze di scheletri, patiboli. E in primo piano in un catalogo di sadiche pene e invenzioni mostruose, zoo di dannati cotti in padella, infilzati di spiedi, incalzati da forconi, stuprati, stiracchiati. Una parabola di eccessi che precipita nella caricatura, ammorbidisce il panico e il terrore nello sberleffo, innervato da una vena popolare che adotta l’Inferno come una parata di Carnevale, festa di consolazione effimera che ribalta le gerarchie sociali.

Cultura bassa e cultura alta che si incontrano e si scontrano. L’Immaginario infernale costretto a fare i conti con tempi, scenari, forme di comunicazione, gusti, platee, interessi economici, orrori e paure che cambiano. È il leit motiv che segna, attualizza ed esalta il copione del segmento della mostra istallato al secondo piano delle Scuderie, che si apre non a caso con un divertente palcoscenico che accoglie il repertorio di diavoli, serpenti, apparizioni diaboliche che costella il repertorio di marionette e copioni del teatro siciliano dei Pupi.

Una pausa che però ci precipita subito in una voragine di altre inquietanti metafore degli Inferni costruiti dagli uomini di un ieri molto meno remoto. Ecco un serie di tele che testimoniano lo chock della rivoluzione industriale. Interni di fabbriche e officine illuminati da bagliori sinistri, popolati da formicolii di operai alla catena, che riportano immediatamente alla memoria e al confronto gli inferni dipinti secoli prima.

Ecco gli orrori della guerra, le trincee del 15-18, un corredo di maschere mortuarie dei volti di caduti deformati e straziati da pallottole e gas letali. Ecco la tragedia dei campi di sterminio nazisti, rivisitata attraverso le tele di un artista, Zoran Music, che ne è riemerso a darne testimonianza. Attraverso le pagine che documentano le correzioni e le aggiunte alla prima versione del romanzo Se questo è un uomo di Primo Levi.

A lanciarci una ciambella di salvataggio, di speranza ancora Dante. Quel suo geniale congedo, «E poi uscimmo a riveder le stelle», che un colpo di regia di Jean Clair amplifica in uno straordinario colpo d’occhio visivo. Il panorama e il mistero dell’universo che ci interrogano dall’immensità nebulosa della via Lattea, ritratta prima in fotografia poi attraverso due opere magistrali di Kiefer.

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