Roberto Cavallini
Addio Alitalia/12

Fumo di Londra

«Il primo incontro piacevole all’aeroporto, al gate dell’Alitalia, fu per la consegna dei bagagli; avevo imballato le bici col pluriball, girato il manubrio lungo l’asse della ruota e del telaio per diminuire l’ingombro, ma avevo lasciato i pedali ancora montati. No, non andava bene in quel modo!»

Sarebbero stati collocati in un futuro inimmaginabile i tempi attuali dell’Inghilterra di Boris Johnson, un personaggio del genere a Downing street era fuori dalla portata anche di una allucinazione dovuta ad una pesante dose di LSD, negli anni ’60 e ‘70. Gli anni dei miei sogni. All’epoca, l’Inghilterra era un posto mitico per me, ancor più dell’America, certo già avevo intravisto la copertina di Jukebox all’idrogeno, col faccione barbuto e gli occhiali di Allen Ginsberg, ma era rimasta una curiosità in vetrina di una libreria in via Cola di Rienzo, a Roma.

Allora ero tutto preso e proteso verso l’Inghilterra, la patria dei Beatles, dei Rolling Stones, e a proseguire con tutto il resto musicale; nutrivo, certo, grande ammirazione per Bob Dylan e il suo Blowin’ in the wind, “canzone di protesta”, che era facile da strimpellare con la chitarra e conferiva un ruolo non secondario nelle feste del sabato pomeriggio, come d’altronde l’eseguire l’arpeggio di Giochi Proibiti che con quel titolo mi faceva pensare a chissà quale esperienza lussuriosa e che inoltre era pur sempre una dimostrazione di “virtuosismo” musicale, da festa del sabato pomeriggio.  

On the road ancora non l’avevo letto e non avevo neanche la patente, Easy Rider mi aveva fatto molto sognare, però il mio quartiere ideale, dove andare a passeggiare, era un po’ come quello che immaginavo fosse Penny lane, anche se la strada stava a Liverpool e non a Londra.

Gli anni a cavallo tra i Sessanta e Settanta furono quelli della contestazione studentesca, della rivoluzione sessuale e della lotta di classe, a Roma e non solo. Tutto in un vortice confuso, per me e forse per molti miei coetanei, dove la lotta all’autoritarismo si affiancava alle lotte operaie, dove le letture di Wilhelm Reich e il concetto di energia orgonica conferivano alle prime esperienze sessuali un’aura sublime, liberatoria e libertaria, senza contare che quelle letture disordinate e orecchiate furono l’apripista per il Marcuse di Eros e Civiltà e Fromm, fino ad arrivare agli “originali” di Freud e Marx, di cui conservo una copia del Manifesto del partito comunista che mi fu regalata tanti anni fa, ornata con cuoricini e dediche d’amore, perché Amore e Rivoluzione a quel tempo era un binomio inscindibile.

E con questi due incommensurabili personaggi della storia, Marx e Freud, si arriva a Londra.

Il faccione di Carlo Marx era ed è posto saldamente su un parallelepipedo di marmo nel cimitero di Highgate, con incise le seguenti frasi: “Proletari di tutto il mondo unitevi” e a seguire “I filosofi hanno solo interpretato il mondo in modi diversi; si tratta però di mutarlo”.

Prassi, teoria, prassi, era un mantra.  La lotta di classe era su un piedistallo.

Vicino ad Highgate c’è il quartiere di Hampstead dove aveva vissuto Freud ed ebbe la sua libreria George Orwell.

Insomma, Londra per me era la summa di tutto: cultura, rivoluzione, musica, liberazione sessuale ed eleganza che era mia convinzione consistesse in pantaloni di flanella, giacca di Tweed e una pipa nel taschino, come Bertrand Russell, ma in fondo anche i Beatles indossavano la cravatta, ed una giustificazione rock ce l’avevo.

In quegli anni pedalavo per Roma su una bicicletta Bianchi di colore nero con cromature splendenti e col cambio a cinque rapporti che in salita mi consentiva di gareggiare col tram sulla Circonvallazione Gianicolense (energia della gioventù), però quella bici mi sembrava più appropriata per gironzolare con nonchalance, fischiettando, per Belgravia e Hyde Park, piuttosto che sui sanpietrini sconnessi di Roma (già da allora).

In una estate di cui non ricordo l’anno, decidemmo di comperare con la mia ragazza di allora, anche lei munita di bicicletta, due biglietti aereo per Londra.

Il primo incontro piacevole all’aeroporto, al gate dell’Alitalia, fu per la consegna dei bagagli; avevo imballato le bici col pluriball, girato il manubrio lungo l’asse della ruota e del telaio per diminuire l’ingombro, ma avevo lasciato i pedali ancora montati. No, non andava bene in quel modo! “Oddio e ora come si può fare?” Chiedo. E con un sorriso compiacente mi sento rispondere: “Ma va bene lo stesso, andate, andate ragazzi, tutto a posto”. Oggi ti è concesso un bagaglio a mano grande come un borsellino, ma il biglietto costa come il treno Roma-Firenze, allora l’aereo era ancora una cosa di lusso.

Quell’estate, lungo le strade di Belgravia ci pedalai, come pure andai ad Hyde Park, a Kensinton, mi inerpicai su Primerose Hill e per tornare all’appartamento che avevo affittato, per arrivare ad Islington dovevo inserire il rapporto più morbido per la salita.

Si sa che a Londra piove frequentemente ma non sono acquazzoni violenti, lì li chiamano shower, doccette dalle quali ci si può riparare anche andando in bici indossando delle cappe gialle di tela cerata che cromaticamente dialogano con le case colorate di Notting hill o si armonizzano col verde dei parchi.

Il giro più rimarchevole però fu quando mi spinsi verso est, in direzione dell’Isle of dog, dove c’erano i vecchi docks, oltre Canary Wharf, dove gli occhi presero il sopravvento sulla Londra immaginata un po’ swinging town e un po’ Carica dei 101. Pedalavo lungo strade fiancheggiate da vecchie casette a schiera in semi abbandono, da cantieri ciclopici dove vidi una biondina incinta che con una mano spingeva la carrozzina e con l’altra si tirava appresso una bimbetta, dentro un paesaggio di squallore e distruzione. Dopo aver attraversato l’isola dei cani e pedalato lungo un tunnel sotto il Tamigi approdai a Greenwich dove affamato consumai il peggior fish and chips della mia vita.

Tra i vuoti d’aria che provocavano rumorosi rollii, sballottamenti su e giù e due inglesine che prese dal panico fumavano come turche (perché allora si poteva fumare in aereo mentre io la pipa la tenevo per bellezza nel taschino) e che per farsi coraggio cantavano canzonacce a squarciagola stonate come galline, quella volta, per il gran voltastomaco, non usufruii del lauto pasto di bordo di quando il viaggio in aereo era una cosa di lusso.

Quel ritorno con Alitalia fu di una grande sofferenza. In fondo stavo tornando da una Londra tutta amore e rivoluzione, verso la quale ero partito più illuso e confuso di Alberto Sordi in Fumo di Londra.


Le fotografie sono di Roberto Cavallini

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