Arturo Belluardo
Addio Alitalia/3

Felice Alitalia

«Felice Alitalia, l’impiegato schifiltoso, mi aveva trovato un volo al limite della notte, dal finestrino non vidi niente, l’hostess straripava nell’uniforme Marzotto e aveva bisogno di una crema depilatoria per le labbra e mi diedero da bere solo acqua in un bicchiere di plastica...»

Ero sprofondato nei sofà d’attesa della Biglietteria di via Bissolati, mordendomi le unghie a sangue nell’attesa che il display rosso chiamasse il mio numero; via Bissolati nel 1984 era ancora avveniristica, sontuosa, continuazione ideale della Via Veneto de La dolce vita, con tutte le insegne delle compagnie che sfilavano su un red carpet aereo, ancheggiando voluttuose, gareggiando a chi fosse la più elegante, se la rivoluzionaria Air France o la granitica Lufthansa.

Io non avevo dubbi: la più charmante era Alitalia, il logo con quella A puntata al decollo e il nome, quasi palindromo, che ti svelava come il nostro Paese fosse uno dei sovrani del Regno dei Cieli; erano i Craxianni, Milano ancora non se l’erano bevuta e la nostra compagnia di bandiera era famosa per le sue hostess stupende, fasciate nelle divise firmate dal cru del Made in Italy, e per i pasti gourmet, serviti a bordo con posate di vero metallo, che tutti portavano a casa come trofeo del privilegio di aver volato.

Io quel privilegio in ventidue anni non l’avevo mai avuto, né io né nessuno della mia famiglia: dalla Sicilia ci si spostava solo in treno, affrontando traversate di dodici, diciotto, ventiquattr’ore a seconda dell’estremo di penisola che si doveva raggiungere.

Lo stesso valeva per quando noi studenti fuori sede dovevamo tornare a casa da Roma per le vacanze di Natale. Non ti comunicavano mai in tempo la data di fine lezioni e con la frequenza obbligatoria non si scherzava: alla LUISS ti chiudevano in aula a sorpresa e un terribile controllore, un certo Felice dal ghigno satanico, ritirava le contromarche di presenza e si accorgeva sempre se baravi, se provavi a passare le contromarche dei compagni assenti a un bidello compiacente (bastavano mille lire).

Insomma, nonostante facessimo file lunghissime allo sportello prenotazioni della Stazione Termini, non riuscivamo mai a trovare un posto sul treno della notte (cuccette e Pendolino erano fuori discussione: bisognava pensarci due mesi prima) e rischiavamo di farci tutto il viaggio in piedi, visto che i posti non prenotati lasciati a disposizione erano sempre pochi.

Funzionava così: il giorno della partenza, si andava in stazione molto presto (bisognava essere almeno in due) e, quando il treno entrava al binario, uno di noi restava con i bagagli, mentre l’altro saltava sul predellino del treno in movimento, apriva lo sportello e correva per le carrozze alla ricerca dei posti liberi.

Le notti in treno erano lunghissime, io non dormivo mai, dense di piedi di immigrati di ritorno con grasse mogli tedesche e figlie basse e obese, sonore di giocate a tressette di minatori siculobelgi dai nomi fantasmagorici, Barbaro Dentello, Liborio Verderame, fumose di napoletani ambulanti che scordavano di darti il resto mentre il treno fuggiva via. L’appuntamento che non mancavo mai era l’arancina sul traghetto alle sei del mattino, quando smontavano il treno a pezzi per fargli traversare lo Stretto e staccavano l’aria condizionata: l’arancina era unta e il riso era scotto, ma era sapore caldo di casa.

Quando il display di via Bissolati mostrò il mio numero, l’uomo in cravatta verde e blu riconobbe tutta la mia inadeguatezza di studente malconcio e sdrucito, in jeans e maglione sbrillentato, niente a che vedere con le profumate segretarie con gli occhiali che popolavano i ficus della Biglietteria Alitalia. Lo sguardo che mi rivolse era alla Felice, disprezzo misto a compassione.

“Vorrei un biglietto per Catania”.

“Per quale volo?”.

“Quello che posso comprare con centocinquantamila lire”.

Il disprezzo si mutò in dubbio, la frogia vibrò, il baffo tintinnò e io affogai nel sudore acido. Perché il Felice Alitalia aveva capito tutto.

Aveva capito che quei soldi io li avevo rubati.

E li avevo rubati a una vecchietta.

La zia Laura, che però tutti chiamavano Ciccina, viveva a Roma, a casa del figlio, ed era obbligo andarla a trovare per gli auguri di Natale.

“Gioia” mi aveva sussurrato all’orecchio “veni cummia, veni cummia”.

L’avevo seguita trotterellante nella sua stanza linda e lucida, piena di mogano e marmi di fine Ottocento.

Si era guardata intorno circospetta, aveva aperto con la chiave di ottone che teneva appesa al collo un cassetto del comò e mi aveva porto una busta giallina.

“M’à scusari, m’à scusari” e mi aveva stretto mani e busta con le unghie ossute “chisti sù pi ttia e i to frati. M’à scusari che non v’accattai nenti, ma ammia mai mi fanno nescere”.

Ringraziai, andai in bagno e aprii l’involto, centocinquantamila lire da dividere in tre.

Quando uscii dal bagno zia Ciccina mi afferrò per un gomito.

“Gioia, veni cummia, veni cummia”.

E di nuovo nella stanza di mogano e marmo.

Si era guardata intorno circospetta, aveva aperto con la chiave di ottone che teneva appesa al collo un cassetto del comò e mi aveva porto una seconda busta giallina.

“M’à scusari, m’à scusari, chisti sù pi ttia e i to frati. M’à scusari che non v’accattai nenti, ma ammia mai mi fanno nescere”.

“Ma zia, non devi…”.

“Non mi dire r’accussì che mi fai ammaraggiare ancora cchiù assai. Basta, basta, amuninni a taliare a talavisione”.

Io un po’ d’imbarazzo l’avevo avuto, non sapevo cosa sarebbe stato peggio, rifiutare, mettendo zia Ciccina di fronte all’evidenza del suo rimbambimento, o dividere come i fratuzzi le altre centocinquantamila lire con i miei fratelli.

Poi sulla talevisione apparve Raffa che cantava Nel blu dipinto di blu dentro un reattore di un Boeing Alitalia, mentre i suoi boys si dimenavano sulla pista: Raffaella Carrà era, sin da quando ero bambino il nume tutelare del mio erotismo. La sua frangetta bionda spiegata dal vento dei reattori aveva soffiato via ogni mia remora.

Decisi per il decollo.

Felice Alitalia, l’impiegato schifiltoso, mi aveva trovato un volo al limite della notte, dal finestrino non vidi niente, l’hostess straripava nell’uniforme Marzotto e aveva bisogno di una crema depilatoria per le labbra e mi diedero da bere solo acqua in un bicchiere di plastica.

Ma stavo volando, tremando tutto il tempo e l’emozione l’avevo trasmessa pure a mio padre che mi aspettava alla riconsegna bagagli inanellando una tremebonda sigaretta dopo l’altra. Che ero l’orgoglio della Casa, il primo della Famigghia ad avere volato!

Metà dei soldi di zia Ciccina li avevo dovuti dividere con i miei fratelli e non ce n’erano abbastanza per il volo di ritorno, però ero riuscito a prenotare un posto sul Pendolino che viaggiava di giorno. Eravamo in pochi a viaggiare il giorno dell’Epifania del 1985.

Quando superammo Maratea, i fiocchi di neve cadevano ormai a larghe falde e, arrivati a Napoli, l’annuncio.

“Si informano i signori passeggeri che il treno diretto a Roma non proseguirà il suo viaggio a causa delle avverse condizioni atmosferiche”.

Napoli era sommersa dalla neve, Roma sprofondata in colli di ghiaccio.

Raggiungere Roma da Napoli richiese altre dodici ore, con i militari che ci portavano latte caldo e succhi di frutta su un treno talmente stipato di militari, immigrati e studenti che stavamo in tre seduti sulla tazza del cesso.

Quando arrivai a Termini, all’alba del 7 gennaio, le pensiline degli autobus erano coperte da un metro di neve e io trascinavo le mie valigie in solchi paralleli, gelando nei miei jeans sdruciti e nel mio maglione sbrillentato.

Gli occhi mi si chiudevano dal sonno, e il bagnaticcio del sudore ferroviario si stava solidificando in brina.

Piazza dei Cinquecento era deserta. Ma dal fondo degli alberi, dal guano gelato di fronte al Museo Nazionale Romano una figurina avanzava trotterellante tra gli spot giallastri dei lampioni.

“M’à scusari, m’à scusari, gioia, m’à scusari se t’arrecai tutto chistu disturbo”.


Le fotografie sono di Roberto Cavallini

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