Gloria Piccioni
Addio Alitalia/9

Colpa della pagella!

«L’unica sufficienza che fu riportata sulla mia pagella era un misero otto in condotta. Per il resto, tutti quattro e cinque. Quale disperazione! Con che coraggio sarei tornata a casa a mostrare quel poco nobile risultato subito prima di ricevere il premio del viaggio in aereo?»

Il tempo della seconda elementare è stato il più inglorioso della mia carriera scolastica. Ero quella che in famiglia si definiva – con un termine che marchiava come un’onta, anche se veniva pronunciato con una certa bonarietà – “una somara”. In verità della mia scuola mi piaceva tutto: l’edificio, una sorta di harrypotteriano Hogwarts, costruito nel 1887 nel quartiere Prati a Roma, i suoi lunghi corridoi con cornici in mosaico di marmo, le scalinate larghe e sontuose, la Gran Sala dove ci si radunava per i grandi eventi come le annuali recite di Carnevale o prima delle vacanze di Natale, di Pasqua e della pausa estiva, declamando poesie e cantando in coro canzoni che diventavano ritualmente così consuete che ancora adesso le ricordo. Mi rassicurava la solennità accogliente della Chiesa, frequentata per la messa settimanale, della cui navata ancora si favoleggia, il giardino accessibile nella ricreazione, le merendine che vendeva la bidella Alfonsina, con la Nutella che sbordava dal secco e spesso biscotto, più appetitose delle merende portate da casa, ma molto meno di quelle che si acquistavano al volo prima che suonasse la campanella d’ingresso, all’angolo di fronte alla scuola, dal mitico Latour (io andavo matta per pizzetta e cornetto salato, e cedevo quasi sempre alle violette di liquirizia e di zucchero). Amavo le aule luminose, la divisa blu col colletto bianco e il grembiule carta da zucchero, elegante e unificante, le compagne di classe che continuo a incontrare ancora oggi e tra cui annovero le mie amiche del cuore, alcune maestre di altre classi, specialmente una che aveva il mio stesso nome e che maternamente ci cospargeva di borotalco quando sudate rientravamo in classe dopo la ricreazione. Amavo moltissimo le Suore di Nazareth, mai bigotte ma piuttosto baciate da quel tanto di necessario illuminismo francese, soprattutto la mai abbastanza celebrata Madre Direttrice Rosa Starace, che davvero ha segnato con la sua generosa e contagiosa intelligenza e la sua cultura la nostra formazione.

La mia maestra invece ci misi un po’ ad amarla. Negli anni precedenti al mio riscatto, che daterei alla terza elementare, non sembrava apprezzare sufficientemente i talenti che esprimevo nella recitazione e le mie doti affabulatorie manifestate nell’intrattenere la classe inferiore alla mia inventando storie all’impronta quando le maestre andavano a prepararsi il caffè e investivano me di quel compito. Piuttosto, la maestra disapprovava la mia totale resistenza alla geografia che, trasmessa in forma di dettato da scrivere in bella calligrafia in un apposito quadernone, proprio non mi entrava in testa. Né dopo mai, forse proprio a causa di quel metodo per me inesorabilmente fatale.

Era autunno quando mio padre decise di portarci con sé a Torino dove si sarebbe dovuto recare per lavoro. Saremmo partiti, io e mio fratello insieme a lui (mia madre era con la nonna a fare le cure a Abano Terme) un venerdì pomeriggio, e per l’occasione avremmo preso – niente di meno – un aereo. Per me era la prima volta e quale emozione immaginare di volare! Non sapevo proprio figurarmi quello che avrei provato, ma ero orgogliosa di accedere a quell’esperienza, di vedere da vicino le Hostess, le Sirene del mio tempo e della mia immaginazione infantile, tutte Barbie (la bambola dei miei giochi preferiti e a lungo praticati) elegantissime e notoriamente corteggiatissime. Il soggiorno poi era carico di promesse: a Torino, città in cui mio padre era nato così come sua madre, suo fratello e le sorelle prima di lui, risiedeva l’adorato zio Mario che ci avrebbe intrattenuto mentre mio padre era occupato. Lo zio Mario era un appassionato juventino, di più, era stato la riserva di Caligaris nella Juventus tra gli anni Venti e Trenta, e aveva contagiato col suo amore bianconero tutti i nipoti. A mio padre poi, che era il più piccino, insegnò a dire la sera prima di addormentarsi una preghierina per la Juventus (abitudine forse nel tempo mantenuta con la dovuta ironia).

Quel venerdì ci fu a scuola la consegna del primo pagellino mensile, compilato con sapiente precisione su cartoncino carta da zucchero (anche quello), con i voti rigorosamente scritti per esteso, a scanso di possibili contraffazioni. L’unica sufficienza che sul mio fu riportata, era un misero otto in condotta. Per il resto, tutti quattro e cinque. Quale disperazione! Con che coraggio sarei tornata a casa a mostrare quel poco nobile risultato subito prima di ricevere il premio del viaggio in aereo? E poi, ero proprio sicura che sarei potuta partire invece che essere lasciata a Roma con la Tata? Ai castighi, in effetti, non ero avvezza essendo i miei genitori oltremodo benevoli, ma certo – lo capivo da sola – quella pagella che ricordava un campo di battaglia pieno di caduti gridava vendetta. Fatto sta che l’ansia terribile per la mia sorte incerta mi fece salire la febbre, cosa che rischiava di compromettere ancora di più la mia partenza. Quando il Babbo tornò dall’ufficio per prelevarci e andare all’aeroporto mi consegnai subito, insieme alla pagella, sconfitta e febbricitante. La lesse serio e insieme rassegnato, mi toccò la fronte e come a voler togliersi di torno un cattivo pensiero disse: «Via, partiamo, poi se ne riparla».

Del viaggio, del primo decollo e dell’atterraggio non ricordo nulla, né timori né emozioni. E pensando a quanto avevo fantasticato quando di ritorno da trasvolate transoceaniche il Nonno o il Babbo ci riportavano in dono mascherine e babbucce di cotone, forniti per agevolare qualche ora di sonno, dove spiccavano i colori della compagnia di bandiera, davvero questa smemoratezza mi colpisce. Ricordo invece benissimo vividi frammenti del soggiorno a Torino. Un albergo moderno e confortevole, un cielo grigio e piovigginoso, gli spostamenti in tram nel pomeriggio in cui fummo affidati allo zio Mario che non esitò a portarci in una mescita per l’iniziazione: un bancone che mi fece sentire come Alice di fronte allo specchio dove tutto si deforma allungandosi, un piano di marmo altissimo dove un bonario Bacco appoggiò due bicchierini destinati a me e a mio fratello con una Barbera versata fino all’orlo. Il prelibato vitel tonné a cena a casa degli zii di cui mio padre andava matto, ma che allora poco mi convinceva.

Crescendo, i viaggi in aereo sono diventati qualcosa che neanche si ricorda, se non per esperienze particolari: qualche vuoto d’aria più o meno significativo, alcune letture sulla meta del viaggio (Marrakech di Canetti per esempio), qualche temporale da dimenticare, il primo volo per gli Stati Uniti con la visione del film mai prima concepita e qualche altro viaggio per irripetibili esperienze di vita. Altre compagnie sono state utilizzate azzardando paragoni sulla qualità, e la nostra compagnia di bandiera è uscita vincente o perdente a seconda del caso (incredibile che proprio sul cibo sia sempre caduta). Fatte anche le esperienze low cost, in età matura non è stato difficile abbandonarle confidando nel proverbio “chi più spende meno spende” e preferendo senz’altro la rassicurante e patriottica Alitalia, talmente interiorizzata a questo punto della nostra vita da dubitare che una nuova compagnia di bandiera riesca a competere mai con tanta storia.

Nel primo viaggio in aereo fatto dopo la pandemia, lo scorso luglio, volando Alitalia verso un luogo amatissimo – la Sardegna – che ogni volta mi regala sensazioni prossime alla felicità, ho provato qualcosa di inedito: in quel volo sospeso tra pannose nuvole sullo sfondo di un azzurro sereno, consegnandomi a quella leggerezza ho pensato che sì, sarei stata pronta a incamminarmi così verso un mondo Altro tutto da scoprire…


Le fotografie sono di Roberto Cavallini

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