Alberto Fraccacreta
I “Lirici greci” dopo Quasimodo

Posseduti delle Muse

Lo sono Saffo, Mimnermo, Ibico, Alcmane, Archiloco, Anacreonte, Alceo, Simonide di Ceo, Asclepiade, Erinna, Nosside, Pindaro, Eschilo, Sofocle, Euripide. E lo è Roberto Mussapi che li ha tradotti per comporre una sua personale e asistemica antologia, «percorsa da una vena drammaturgica»

Nel 1940 Salvatore Quasimodo pubblicò con Edizioni di Corrente (nel ’44 con Mondadori) l’opera forse più importante del suo corpus poetico, la traduzione dei Lirici greci. Giudizio ardito, certamente, ma tant’è: dopo oltre ottant’anni quel mondo ieratico e arcaico, ricreato da Quasimodo, ci appare nella sua tonale freschezza e si potrebbe benissimo parlare di silloge quasimodea a tutti gli effetti, tout court, in un singolare caso di sovrapposizione autoriale, di stratificazione del proprio genio letterario su materiale altrui.

Ottant’anni dopo, appunto, Roberto Mussapi si cimenta nella difficile impresa di misurarsi con il ciclopico lavoro del suo predecessore. E lo fa con lo stesso intento: ammannire un’antologia personale, asistemica, priva di ordine cronologico ma percorsa da una vena quasi ‘romanzesca’, o meglio ancora ‘drammaturgica’. Ecco quindi i Lirici greci tradotti da Roberto Mussapi (introduzione di Giulio Guidorizzi, Ponte alle Grazie, 224 pagine, 16euro) che vedono protagonisti in successione la Coppa di Nestore, Saffo, Mimnermo, Ibico, Alcmane, Archiloco, Anacreonte, Alceo, Simonide di Ceo, Asclepiade, Erinna, Nosside, Pindaro, Eschilo, Sofocle, Euripide (sì, ci sono persino voci tragiche a ricomporre la profonda mousiké greca).

Cosa ne viene fuori da questo variegato alternarsi di modulazioni e stili? Parole alate: così scrive a ragione Guidorizzi nel contributo prefatorio, che aggiunge: «I poeti sono dei posseduti dalle Muse. Come la calamita — dice Platone — non solo ha il potere di attirare anelli di ferro, ma comunica lo stesso potere agli anelli magnetizzati, tanto che a volte si forma una lunga catena di anelli attaccati tra loro, la stessa cosa avviene con la poesia: la Musa offre i suoi doni ad alcuni, li porta fuori di sé, li rende capaci di creare, e attraverso questi posseduti si forma una catena di persone tutte quante invase dalla stessa ispirazione».

Be’, un Mussapi posseduto delle Muse, senz’altro, ma anche un universo musaico ‘mussapizzato’. Lo attesta subito la Coppa di Nestore, a corollario dell’antologia: «Io sono la bella coppa di Nestore:/ chi berrà da me con le sue labbra/ sentirà il bacio, all’istante, di Afrodite». Quel all’istante che spezza il ritmo, lo ‘sospende’ in un quadro diegetico magico, fantasioso, al limite dell’udibile, è tipico degli scarti formali di libri come Gita meridiana La piuma del Simorgh. Tale processo ‘assimilatorio’ è ancor più evidente per il celeberrimo Fr. 31 Voigt di Saffo, il cui titolo è qui Felice come un dio quell’uomo: «Felice come un dio quell’uomo che rapito/ così vicino a te si beve la tua voce soave/ e il riso amoroso, e mi atterrisce il cuore./ Ti scorgo un attimo e la voce smuore,/ la lingua è franta, un brivido di fuoco/ mi divora le carni e buio/ negli occhi, un rombo nelle orecchie,/ cola sudore e mi possiede un tremito./ Sono più verde dell’erba,/ forse muoio». Anche in questo caso la lingua al contempo petrosa (‘smuore’, ‘franta’, ‘brivido’, ‘divora’) e dolce (‘soave’, ‘amoroso’) con il decisivo contrasto assonante buio/muoio risemantizza il testo antico per presentarci un’esperienza poeticamente aperta, moderna, calata nel nostro tempo. 

Sotto il profilo contenutistico cosa ci comunica il florilegio? La bellezza, l’amore ovviamente (condito altresì di metafore sportive, Come un cavallo vincitore che invecchia), la precarietà dell’esistenza (il sempre emozionante Come le foglie di Mimnermo), ma anche il gaudio dell’attimo di ebbrezza anacreontico, Ebbro, non sbronzo come uno Scita: «Su, portami la tazza che io beva d’un fiato/ dieci parti d’acqua e cinque di vino,/ perché adesso mi voglio inebriare,/ ebbro ma senza esagerare./ Esercitiamoci a bere il vino/ non schiamazzando come gli Sciti,/ ma piano, con canti dolci e lievi». È proprio la decantata levità a mostrarsi quale basamento della lirica greca: levità che non significa superficialità ma che, essendo ben conscia delle lacrimae rerum, volge la sua attenzione al transeunte nella sua carica positiva, piena. Su ali pindariche, Mussapi ci fa respirare una boccata di ossigeno, ricordandoci a ogni passo che «è il bene supremo per gli umani la gioia/ che riassapori per sempre, a ogni risveglio».

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