Attilio Del Giudice
Una novella inedita

La lezione

«Gli scrittori devono fare molta attenzione, perché possono essere messi con le spalle al muro per un inesorabile ludibrio dalle loro medesime creature...»

Due bei ragazzi. Raimondo ventunenne, Marcello di qualche mese più giovane. Discutono animatamente sulla natura dell’amore. Uno sostiene che l’amore deriva dal desiderio sessuale, l’altro invece dice che è l’amore a generare il desiderio. Sono su posizioni opposte. Non si profila una sintesi o una qualche conciliazione concettuale. Anche se evitano perfino di nominarla nelle loro accanite diatribe, sono entrambi innamorati della stessa ragazza: Isabella, diciottenne, la figlia di un famoso architetto. Isabella è una ragazza assai simpatica ed è lontanissima dai luoghi comuni, dagli stereotipi e da una certa invereconda omologazione linguistica giovanile.

Siccome io sono la voce narrante e ho il compito e la responsabilità di portare avanti il racconto, sono andato a parlare con Isabella per sapere come poteva andare a finire la storia. Mi sono chiesto: quale dei due sarà il prescelto e su che basi di specifica attrazione per questa elegantissima diciottenne. Lei li vede spesso da una comune amica, che, mi dicono, si stia adoperando come mediatrice per portare a buon fine una intesa sentimentale o, almeno, una esperienza sessuale con uno dei due o, magari, con entrambi (i tempi sono cambiati).

“Come va a finire la storia? Questo è un problema suo – ha detto Isabella sorridendo – Questi ragazzi, Marcello e Raimondo, sono carini, non c’è dubbio, sono palestrati e curano il look. Nel bagno femminile del liceo le mie colleghe si divertono un mondo a fantasticare scene porno con questi due giovanotti, rampolli entrambi di agiate famiglie borghesi, ma a me non interessano più di tanto. Li trovo senza leggerezza e senza profondità. Il livello di umorismo, poi, è decisamente sotto zero. In pratica sono seriosi e assai noiosi. Mi dispiace. Del resto lei è il narratore e lo sa bene che non tutte le storie finiscono a tarallucci e vino. Anzi questa non è neppure iniziata.”

 Devo dire la verità questa ragazza mi è piaciuta un sacco, ma sono stato attento a non fare commenti e a non rendere esplicita la mia ammirazione. Mi sono ricordato di un episodio che mi accadde non molto tempo fa. Ve lo racconto in poche parole.

Stavo scrivendo una novelletta su una certa Angelina detta Maruzzella, una napoletana di Torre del Greco, una ragazza del popolo che, decisamente, poteva somigliare alla ragazza della famosa canzone di Carosone. Veniva anche chiamata ‘a Marunnella per una vaga somiglianza alla statua della Madonna dell’Arco. Era molto bella e sensuale, ma non era propensa a darsi facilmente. Si diceva che, sotto sotto era “sprucida”, difficile nei gusti e innescava nei cuori degli spasimanti non poche pene d’amore e dispiaceri.  A me, che ero la voce narrante, piaceva molto. Mi piaceva la sua fierezza e mi piaceva particolarmente una sorta di erotismo latente, più o meno nascosto nello sguardo assassino e nella grazia carnale delle movenze, sobrie, misurate e, insieme, assai femminili e lascive. Mi piaceva anche il fatto che si esprimesse sempre in dialetto e ironizzasse allegramente su quelli che ostentavano un linguaggio ricercato, rinforzando in me per questa gioiosa napoletana l’idea di una assoluta autenticità. Insomma ne ero affascinato e, così, ingenuamente, glielo dissi. Le dissi anche che mi stimolava una particolare frenesia (usai questa parola, che, secondo me, mitigava l’idea di una irresistibile brama). Lei capì subito e si mise a ridere. “Ma voi siete un narratore o siete nu viecchio rattuso? – disse senza mezzi termini – A me che me ne fotte della vostra frenesia? Voi scrivite ‘u racconto e lasciate sta ‘u  riesto. ‘A frennesia tenitavella pe’ vuie!”

A questo punto c’erano gli elementi per sentirsi offeso, e c’era la necessità di stabilire le distanze e redarguirla, ma il fatto che facessi lo scrittore non mi fu sufficiente per trovare le parole giuste, quelle che inchiodano l’interlocutore. Avrei dovuto dirle: “Tu, Angelina, non sei un personaggio reale, sei un personaggio di una finzione narrativa e io sono il tuo autore, quello che ti ha creato, non ti puoi permettere tanta insolenza”. Invece mi limitai a dire: “Forse c’è un equivoco, ti prego di scusarmi, io volevo mettere un po’ di peperoncino nella minestra.”

“Io non ve lo dico dove ve lo dovete mettere il peperoncino, perché tengo il mare dint’ all’uocchie, comme dice a canzone, e ‘a gente dice pure che assomiglio alla madonna dell’Arco, a Marunnella. Non ve lo dico, ma datosi che facite ‘u narratore, ve lo potete pure immagina’.” Sorrise e mi lasciò come un allocco. Cari lettori non potevo correre altri rischi con Isabella. Certo la figlia dell’architetto avrebbe usato un altro linguaggio, si sarebbe espressa in modi molto più corretti, ma non sarebbe cambiata la sostanza. La lezione di Angelina, detta Maruzzella o Marunnella, sul momento non l’accettai e mi dispiacqui di non aver trovato il modo per rintuzzare, ma poi ci ho pensato e mi sono ravveduto: mi sono convinto che i narratori, quelli celebri e importanti, ma anche quelli meno noti e prestigiosi, non possano lasciarsi andare e considerare i propri personaggi come i depositari passivi di tutte le voglie e illeciti pruriti, che la realtà mette a fuoco. Gli scrittori devono fare molta attenzione, perché possono essere messi con le spalle al muro per un inesorabile ludibrio dalle loro medesime creature.

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