Valentina Fortichiari
Addio Alitalia/1

Ho imparato a volare?

«Volo come metafora della vita e anche della scrittura se si conosce l’arte di darle ali e assenza di peso e levità con lo spessore profondo dell’anima». Comincia così una serie di riflessioni e ricordi legati alle meraviglie (e agli orrori) della nostra "compagnia di bandiera"

Il 15 ottobre 2021 finirà l’èra dell’Alitalia. Nel bene o nel male, la cosiddetta “compagnia di bandiera” è stata la storia d’Italia. Pubblica e privata; emozioni personali e celebrità che scendevano dalla scaletta. Ma Alitalia è stata soprattutto lo strumento che ha portato lontano una generazione, avvicinando mondi e terre che sembravano irraggiungibili. Tutto questo, per dire addio ad Alitalia, Succedeoggi ha chiesto di raccontarlo ai suoi collaboratori. La riflessione di Valentina Fortichiari apre la serie. Ogni racconto è illustrato dalle fotografie di Roberto Cavallini, realizzate appositamente per l’occasione.


Perché amava tanto il volo Daniele Del Giudice? Volava lui stesso per sentire sulla barra di comando la potenza che fa innalzare verso i cieli un velivolo e insieme un corpo privato della sua gravità. Volo come metafora della vita e anche della scrittura se si conosce l’arte di darle ali e assenza di peso e levità con lo spessore profondo dell’anima. Sarà dunque questo che attrae gli umani da sempre, sin da quando con ali rudimentali Leonardo per esempio, dopo l’acqua, volle governare l’aria e dimostrare che nulla avrebbe potuto fermare la corsa verso lo spazio infinito?

Ho volato in varie parti del mondo, e posso dire che le emozioni più forti le ho provate arrivando nel grande Nord, in Islanda e Norvegia, dove la luce ha vibrazioni indescrivibili. Scendendo a terra a Reykjavik, dopo un volo notturno lunghissimo, fiamme rosse e dorate erano intorno a noi come se l’alba entrasse dentro l’aereo a svegliarci. Fu magnifico, tanto quanto le onde ipnotizzanti dell’aurora boreale.

I primi voli hanno segnato tappe importanti nella mia vita, passaggi cruciali, momenti che hanno lasciato un segno, nell’infanzia e nell’adolescenza. Il battesimo dell’aria me lo ricordo bene. Estate dei primi anni Sessanta. I miei genitori decisero di evitare il trasferimento in macchina al mare dal momento che mio fratello aveva solo un anno. Un regalo inaspettato quel volo, che a me pareva un lusso al quale non eravamo abituati. Viaggiammo leggeri, mentre un grosso baule per conto suo se ne andò su rotaie per poi raggiungerci in vacanza con tutto il necessario.

Il primo volo: «staccare l’ombra da terra» era un’emozione del tutto sconosciuta. Mi avrebbe turbata? Mi avrebbe messo paura? Avevo una decina d’anni: troppo presto per indagare dentro di me sulle mie vibrazioni emotive. Tutto era vivere in leggerezza, senza pensieri. Mi lasciavo vivere, guidata, sempre controllata, con la smania di assecondare le aspettative dei «grandi». Presente a me stessa solo quel tanto che potesse piacere, non a me, agli altri. Mi negavo attenzioni.

A bordo, ci insegnarono subito come allacciare in vita le pesanti cinture di sicurezza, e io guardai mio padre nel farlo, dal momento che avevo bisogno di sapere che non avremmo corso rischi. Mio fratello stava sulla sua pancia, protetto, silenzioso. Mia madre dall’altra parte del corridoio, o forse nel terzo sedile, non saprei dire. A me bastava sentire il contatto con il braccio paterno, la sua spalla rassicurante.

La pressione sulla schiena durante il decollo, come la pacca di una mano robusta che spinge verso l’alto senza troppa delicatezza, mi fece trattenere il respiro. La velocità si percepiva, tanto quanto il silenzio di tutti in cabina nel momento fatidico dell’ascesa verso le nuvole, e quando l’assetto fu stabile, con sollievo di tutti, rilasciai muscoli e respiro. Avevo già imparato il controllo del corpo in acqua, nuotavo da circa quattro anni. Non mi restava che affidarmi all’aria, in fondo i due elementi avevano qualcosa in comune: il galleggiamento, la sospensione. Volo e nuoto almeno nei sogni per me si equivalevano.

Fu assai rumoroso il viaggio sulla rotta Milano Rimini: il velivolo poteva essere un DC8 Alitalia. Ai piedi della scaletta gli avevo osservato il muso aggressivo, i due grossi motori come occhi sulle ali. E avevo notato i finestrini minuscoli lungo la fusoliera. All’edicola dell’aeroporto di Linate, mio padre mi aveva comprato una delle buste misteriose contenenti 3 fumetti. La scelta ogni volta era dubbio e sorpresa: speravo di trovarci Nembo Kid, Tiramolla o Tex, non sempre mi andava bene. A causa del baccano prodotto non solo dai motori ma anche dalle vibrazioni metalliche in cabina (persino i sedili parevano tremare), mi riusciva difficile concentrarmi sui giornalini. Seduta vicino al finestrino, non staccavo gli occhi dal panorama che vedevo nel piccolo ovale: provavo una sorta di brivido a considerare l’altezza alla quale si era spinto il nostro aereo, mi dava davvero l’illusione di attraversare cieli e nuvole come un’aquila dalle grandi ali, a una distanza irraggiungibile dagli umani, e sorvolare montagne, campi e boschi, fiumi, fino allo specchio accecante del mare in prossimità dell’atterraggio. Sì, finalmente potevo sentirla la gioia del volo sopra tutte le cose, l’emozione di trovarmi lassù tanto vicina al sole. Non sarei mai scesa a terra.

Sei anni dopo, ero di nuovo a Linate, o meglio era un’altra me, sedicenne pronta al primo viaggio oltre Manica verso l’Inghilterra, da sola! Tutto calcolato, i miei potevano fidarsi: ero infantile ma seriosa, equilibrata, refrattaria a colpi di testa. Scopo del viaggio una vacanza-studio, un corso estivo per imparare l’inglese; la destinazione, ben ponderata, un college ad Aylesbury, nella contea di Buckinghamshire, una magnifica residenza nel verde, non lontana da Londra, e situata a metà strada fra Oxford e Cambridge.

Questa volta credo che il volo Alitalia fosse un DC9: i miei genitori erano in vedetta sul terrazzo panoramico dell’aeroporto, a salutarmi, mia madre con fazzoletto alla mano. Due anni prima, quattordicenne, avevo inaugurato il mio primo quaderno-diario, segno di un risveglio della coscienza che aveva bisogno di appuntare pensieri, di parlarsi, di ascoltare il mondo. Insieme agli inseparabili taccuini, portavo con me testa e cuore, una capacità ancora ai primordi di guardare e stare in ascolto, di vivere con intensità ogni esperienza, sulla quale sarei tornata, a posteriori, anche grazie al corredo di una telecamera, dono paterno per fissare meglio ogni immagine (al fatidico cambio della guardia avrei ripreso soprattutto i volti dei miei compagni di college e di alcune persone bizzarre nella folla assiepata). Scattai foto dal finestrino durante il volo, immagini sfuocate in mezzo alle nuvole. C’era un tempo infame, l’aereo ballava, a ogni scossone lamenti di paura. Temevo quella tempesta che ci avvolgeva, nel buio. Inquadravo l’ala che oscillava; all’atterraggio sul suolo londinese urla e niente applausi, tanto la manovra era stata repentina, sbandata e violenta per via del vento.

Lungo il viaggio avevo osservato e ascoltato i passeggeri: ogni persona mi incuriosiva, inglesi che rientravano a casa e parlavano fitto (come avrei potuto capire, col mio inglese stentato, scolastico?!), e i compagni del mio gruppo, dopo lo scambio frettoloso di saluti alla partenza. Mi parevano tutti simpatici, un bel gruppo di ragazze e ragazzi dai 16 ai 20 anni, che avevo smania di conoscere. Avrei trascorso giorni piacevoli in loro compagnia, avrei conosciuto la vita fuori dalla famiglia, gioie e dolori della nostra età: avventure e amori, prime delusioni, piccoli drammi. Ma stavo sempre al di qua di una adesione totale ai fatti. Quel primo ‘volo’ da sola, nel mio felice scampolo di libertà, mi aveva cambiata davvero? Non saprei dire: feci passi da gigante in una sola estate, aprii in parte gli occhi sulla realtà. Le cose migliori della vita si scorgono nella distrazione, ha detto Daniele Del Giudice. È verissimo e oggi nulla è cambiato in un certo senso: ferma ai miei sedici anni di allora, a volte sono distratta, vedo e non vedo, volo e non volo. Sono presente a me stessa ma più spesso assente. Come quel grongo pigro che preferisce stare sul fondo del mare ad acchiappare le prede soltanto quando gli passano sotto il naso.


Le fotografie sono di Roberto Cavallini

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