Reportage dalla memoria
Esotico Afghanistan
Da Mykonos a Istanbul, poi in treno a Teheran e in autobus fino a Taybad per attraversare a piedi la frontiera e dirigersi verso Herat, Kandahar e finalmente Kabul. Quando la terra di Zarathustra era la meta preferita della “meglio gioventù” assetata delle libertà oggi negate dagli studenti coranici
Il confine con l’Afghanistan lo attraversai esattamente cinquant’anni fa. Per vicende complicate da raccontare i miei zii si erano stabiliti a Teheran e pensai di andare a trovarli ma con mezzi lenti. Tutto inizia con i biglietti al Centro Turistico Studentesco alla ricerca di un volo per Istanbul tanto per avvicinarmi alla meta. Nell’attesa trovo degli amici romani di Vigna Stelluti che mi invitano a passare per la Grecia. Così ci troviamo tutti una mattina in aeroporto e si parte per Atene dove a uno di loro viene in mente una sosta a Mykonos. Pireo, traghetto, approdo con una manovra rapidissima della nave che in un attimo gira su se stessa di 360° e ormeggia. Un popolo di navigatori da Ulisse in poi. Due giorni sull’isola; niente stanze di albergo ma solo letti su un tetto. Anche bello se non fosse per il sole che ti sveglia alle sei del mattino e alle sette fa già troppo caldo. La Paradise Beach, famosa anche allora, si raggiunge solo con barche di pescatori; decenni prima dell’invasione delle discoteche. Ritorno nella capitale e volo per Istanbul. Qualcuno ha consigliato il Pirlanta Hotel (ormai scomparso) con i suoi tre piani dipinti di smalto di diversi colori: rosa, verdino e celeste. Modestissimo, ma con finestre sulla Moschea Blu. Il ritrovo di tutti è il pudding shop dove si mangia quasi esclusivamente yoghurt in vasetti di alluminio usati innumerevoli volte e il dolce di riso inglese per cui è famoso. Il locale è tappezzato di foglietti in cui si offrono e chiedono passaggi in auto per l’est dove le mete più ambite sono Afghanistan, India, Nepal e Thailandia. Certi amici hanno acquistato una Lancia Flaminia in Italia per rivenderla a Bangkok e alla fine ci riusciranno.
Per me va meglio il treno diretto da lì a Teheran. Mi permetto un posto di prima classe per la somma modesta di novemila lire. Condivido lo scompartimento con altre quattro persone turche, ma durante il viaggio incontro decine di giovani come me che sciamano verso quelle destinazioni richiamati da un non chiaro fascino orientale. Divento amico soprattutto di tre ragazzi genovesi, Eric, Vanni e Vittorio e ci incontriamo spesso in una specie di vagone ristorante. Spesso il treno si ferma nel mezzo del nulla sull’altipiano dell’Anatolia, qualcuno scende e inizia a camminare verso un orizzonte sassoso e polveroso come si conviene a quei luoghi. Arriviamo nella capitale iraniana dopo tre giorni e mezzo con un ritardo di dieci ore rispetto all’orario previsto. Chiamo mio zio da una cabina alla stazione (ho cambiato dei dollari e ho dei rial che servono allo scopo) e viene a prendermi. Gli chiedo di ospitare i tre lasciando male gli altri compagni di viaggio. Quando mia zia ci vede, ordina subito una doccia per tutti e non ci facciamo pregare. Puliti e profumati, siamo ammessi alla sala da pranzo dove è imbandita una colazione da favola: frutta, barbari, il pane piatto salato; un trionfo di melone bianco, kharbozé; pamir, il formaggio di pecora fresco tenuto nella sua acqua salata; yoghurt; senza che manchino tè, caffè, latte.
I genovesi se ne vanno lo stesso pomeriggio. Rimango qualche giorno ma poi vengo preso anche io dalla voglia di esplorare e dico che mi metterò in viaggio. Ancora oggi mi stupisco che i miei zii abbiano lasciato andare un ragazzo di ventidue anni, neanche tanto esperto del mondo, con mezzi di fortuna. Con un minibus Mercedes in quasi dodici ore si coprono i novecento chilometri fra Teheran e Mashad. Compagni di viaggio tutti locali che portano mercanzie dalla capitale: tappeti, borsoni enormi di tela spessa legati con grandi corde pieni di tutto; c’è anche una gabbia con galline. La loro gentilezza è sorprendente: mi offrono con un sorriso fette di kharbozé ma anche acqua da un secchio che viene tirata su da un ramaiolo di alluminio da cui tutti bevono direttamente; invece io, allo scopo ho uno di quei bicchieri a telescopio con coperchio con i colori della bandiera italiana che sono gli stessi di quella iraniana. In città vado a vedere, su consiglio degli zii, la moschea santuario dell’Imam Reza, la più grande del mondo. L’ingresso è proibito agli infedeli ma la barba facilita una mia possibile appartenenza locale.
Nel primo pomeriggio sono già in partenza e con quattro ore di un altro minibus arrivo a Taybad, l’ultima città iraniana prima del paese vicino. Gli ultimi venti chilometri da lì al confine con un autostop su un’auto di europei verso la stessa direzione. Ricordo bene che arriviamo un po’ prima dell’imbrunire; ci sono forse venti turisti prima di me e altrettanti dopo che devono passare l’ispezione di due o tre ufficiali nelle loro divise pesanti verdi. Fa un caldo soffocante a malapena alleggerito da un ventilatore in un angolo della stanza. Non c’è alcun bisogno di visto, d’altro canto non ce n’era neanche per entrare in Iran. Basta un passaporto su cui viene scritta la data di ingresso. A un certo punto qualcuno inizia a protestare e si capisce che la frontiera sta per chiudere quando il sole rade il deserto sassoso in cui ci troviamo. Continuo a pensare che la chiusura sia combinata con i gestori di un alberghetto-ristorante in cui si serve soltanto pollo bollito e riso. Uso anche una delle loro stanze mentre la maggior parte degli altri dorme fuori in sacchi a pelo. Indimenticabili le lenzuola di quei letti che non dovevano essere state cambiate negli ultimi dieci anni. Il sonno le fa sembrare accettabili.
È mattina presto quando mi sveglio, sbrigo le formalità doganali, attraverso a piedi la frontiera e trovo subito un bus che porta a Herat per una strada non asfaltata. Tutti i nostri bagagli sul tetto del veicolo insieme a due o tre custodi per controllarli. In circa tre ore si arriva in città, al tempo un posto tenuto in vita dal turismo di passaggio. Case di mattoni di fango, strade polverose, niente elettricità di notte se non qualche piccolo generatore che alimenta pallide lampadine impotenti contro l’oscurità prevalente. Le donne in burqa colorati non sorprendono, fanno parte del costume locale; viene in mente chissà cosa si nasconda dietro quella fitta rete di cotone. Il giorno dopo sulla strada principale incontro un ex compagno di liceo con la sorella e poco dopo un collega dell’università. Pochi scambi curiosi ma poi ognuno continua per la propria strada.
Riprendo la mia e per arrivare a Kandahar sempre a bordo di minibus ci vogliono dodici ore. Stanco di adattarmi a stanze di albergo al di sotto di minimi standard igienici, trovo un albergo appena decente con un giardinetto. La città non ha niente di particolare e riparto il giorno dopo, questa volta in aereo, uno Yak-40, un piccolo jet russo con 32 posti, una bara del cielo che nei 14 anni di operatività ha collezionato 132 incidenti con più di ottocento morti. Anche se lo avessi saputo ci sarei salito sopra ugualmente. Conversazione con un gentile signore tedesco in viaggio di lavoro. Finalmente Kabul, la capitale di un pacifico regno pre-russo, pre-americano e pre-talebano associato sicuramente alle sostanze ma anche a un senso di illimitata libertà fuori dagli schemi occidentali. Giovani europei e nordamericani girano per la città strafatti di sostanze e vestiti tutti di bianco come omaggio ai locali. Anche qui case basse di fango, bambini che chiedono soldi e offrono qualcosa da vendere. Un giorno uno di loro sembra infastidire un gruppo di turisti e una guardia gli molla un ceffone e gli rompe il vaso di terracotta che voleva vendere. Subito un gruppetto di ragazzi europei prende le difese del ragazzino attenti a non irritare troppo il militare armato. Quello se ne va e vengono raccolti pochi spiccioli per il bambino che magari in separata sede li avrà dovuto spartire con il poliziotto che aveva favorito l’acquisto.
In un alberghetto vicino incontro – non avevo dubbi – i ragazzi genovesi, troppo sorridenti e con gli occhi molto lucidi. La sera danno uno stridente concerto di sitar nel giardino mentre ragazzi e ragazze si tingono capelli e unghie di henné e l’odore di terra e radici si spande per l’aria. Mi hanno offerto un tè corretto di sostanze e in testa iniziano dei tamburi bongo che non riesco a mandare via. Momenti di terrore al pensiero di essere solo e sconosciuto in un posto dove a nessuno importerebbe della mia sorte. Mi metto a dormire e mi calmo. Molti parlano di India e Pakistan, del famoso Khyber Pass tra le montagne. Forse non me la sento, mi pare di aver sfidato la sorte abbastanza. Acquisto una piccola collezione di stampi per stoffe di legno di sandalo e rifletto sul ritorno. Viene incontro nella decisione la dissenteria di Vanni e mi faccio carico della situazione dall’alto del mio terzo anno di medicina. Lo accompagno all’ospedale francese dove verosimilmente gli danno degli antibiotici. Il dottore è uno con barba e capelli rossi e un’aria da volontario europeo. Ovviamente non migliora subito e pensano di ripartire. Essendo il più sobrio della compagnia organizzo il viaggio di ritorno. Percorso inverso fino a Mashad con l’amico che ha bisogno di continue soste di emergenza in bagni locali; poi un aereo fino a Teheran. Lì trovo tre posti per loro su un volo per Amsterdam e poi Milano e se ne vanno. Rivedrò solo Eric dopo molti anni che, per le coincidenze inusuali del destino; lavorava alle Seychelles in un albergo di proprietà di una famiglia che conoscevo. Curioso non solo il caso che fosse un loro impiegato ma soprattutto che fosse entrato in una delle nostre conversazioni. Rimango un altro mese preparando un esame universitario, girando per il bazar di Teheran e partecipando tutte le mattine al rito della colazione.