Paola Benadusi Marzocca
Una ricostruzione storica per immagini

Dante e Bonconte tra l’Arno e l’Archiano

Alberta Piroci Branciaroli dedica uno studio alla battaglia di Campaldino tra Guelfi e Ghibellini e agli ultimi istanti di vita del Signore da Montefeltro, valoroso capitano ghibellino, che lì trovò la morte. Un evento che Dante evoca nel V Canto del Purgatorio

È un testo prezioso e singolare quello di Alberta Piroci Branciaroli, Bonconte ultimo atto – Alla confluenza dell’Archiano con l’Arno (Mazzafirra editore, 119 pagine, 18 euro), che ci riporta indietro nei secoli, precisamente alla spettacolare battaglia di Campaldino tra Guelfi e Ghibellini, a cui partecipò un giovane Dante Alighieri. Nel V canto del Purgatorio, Dante evoca gli ultimi istanti di vita di Bonconte da Montefeltro, il coraggioso capitano ghibellino, padre di Manentessa, contessa di Romena, ferito a morte nella battaglia di Campaldino nella pianura sotto Poppi del 1289. Lo scenario in cui avvenne lo scontro è descritto con riferimenti geografici e paesaggistici accurati, ammantati «da un’aurea di mistero e sacralità» che rafforzano nell’immaginazione l’impatto visivo del tragico evento. L’autrice raccoglie attraverso il tempo, delineando con chiarezza e dovizia di particolari, le più significative immagini e illustrazioni sulla morte di Bonconte e sul drammatico duello fra l’angelo e il diavolo, allegoricamente la traduzione dell’eterna lotta tra la luce e l’ombra, tra il bene e il male. Nel fare questo non segue soltanto un criterio cronologico ma anche una progressione nell’intensità dell’interpretazione fantastica dilatata dalla inesauribile fantasia degli autori, dagli anonimi incisori veneziani del XV secolo, ai successivi fino ai nostri giorni.

In un mondo dominato da ansie religiose e da una fede indiscussa nella potenza divina, quale era quello vissuto da Dante e da Bonconte da Montefeltro, la certezza della vittoria dell’angelo sul diavolo rende possibile il Meraviglioso. Alberta Piroci riporta le parole della scrittrice inglese Ella Noyes che ai primi del Novecento visitò il Casentino descrivendo nel suo diario di viaggio il luogo in cui Bonconte rese l’anima a Dio. Non si può mettere in dubbio che Dante conoscesse perfettamente la distesa sassosa lambita dall’Archiano nel punto in cui confluisce nell’Arno. «Il suo spirito –scrive Ella Noyes – aleggia ancora sul luogo di quella grande meditazione che superando l’autorità del vicario di Dio in terra vide e capì la grande Misericordia, la totale Pietà…». Prima di morire Bonconte aveva rivolto piangendo il suo pensiero alla Madonna con grande disappunto del Maligno: «Tu te ne porti di costui l’etterno / per una lacrimetta che ‘l mi toglie; / ma io farò de l’altro altro governo!».

Quella battaglia impressionò Dante in modo indelebile se dopo tanti anni risaltano nei suoi versi, con forza dirompente, l’ammirazione e il dispiacere per la morte violenta del nobile avversario, che tra l’altro era contrario allo scontro per motivi strategici, ma che non si sottrasse al suo dovere. La vicenda misteriosa di Bonconte affascinò anche D’Annunzio che amò il Casentino fino al punto di scrivere : «Se non fossi nato nella terra d’Abruzzi, vorrei esser nato qui, nella terra della Verna e di Michelangelo». Tornando a Bonconte, si può ipotizzare che fuggendo ferito con la sua schiera verso Bibbiena dopo la rotta degli aretini, sia caduto in Arno e il suo corpo trascinato via dalla corrente e mai più ritrovato. Dopo la battaglia sembra che un violento temporale estivo si abbattesse sui combattenti, così Dante, quasi compiendo un atto mistico con i suoi versi, penetra fino all’essenza della verità che comprende il fondo delle cose attraverso la loro apparenza e comunica ciò che vede. La sua visione sembra venire dall’alto, quasi fosse una sorta di messaggio dell’infinito ignoto.

L’episodio dantesco di Bonconte da Montefeltro si presenta, riportando le parole dell’autrice, «come un annuncio universale dal profondo significato etico-morale: l’infinita misericordia divina, imperscrutabile e vittoriosa sull’altrettanto universale diabolica discordia, anch’essa senza tempo». E aggiunge che il Purgatorio è nella Divina Commedia la cantica «più terrena perché rispecchia la condizione di “homo viator”, la condizione di pellegrino…». E ancora, secondo Aldo Cazzullo, «è il luogo del “quasi”, dell’attesa della felicità… È un mondo di nostalgia ma anche di sollievo, di rimpianto, ma pure di consolazione. È una terra di frontiera tra l’uomo e Dio. Ha il fascino di una città di confine». Fu creato dalla Chiesa nel 1274 e nessuno aveva detto come fosse fatto. Dante lo immagina come una montagna luminosa rallegrata dai canti di coloro che salgono verso la cima dove è collocato il giardino dell’Eden. Per concludere, la Divina Commedia, secondo le parole di Alberta Piroci Branciaroli, «è stata ed è un’illuminazione culturale in grado di agire profondamente sull’immaginario collettivo, sia popolare che aulico». Non stupisce perciò che artisti e illustratori nel corso dei secoli abbiano fatto a gara a tradurla in un linguaggio figurativo quasi sempre di altissimo livello.

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